INTERVISTA Gianni Alemanno: “Ecco i segreti della Capitale. A Roma centrodestra suicida, preferisco Storace”
Quando, il 2 dicembre 2014, ricevette un avviso di garanzia per associazione a delinquere di stampo mafioso, un anno e mezzo dopo avere mancato la riconferma a sindaco di Roma, Gianni Alemanno ha conosciuto probabilmente il momento più duro della sua vita politica. Ora che l’inchiesta “Mafia Capitale” ha colpito anche le amministrazioni romane di centrosinistra, lui racconta la “sua” Roma, soverchiante e difficile da cambiare, nel suo ultimo libro, Verità Capitale. Caste e segreti di Roma.
Il volume, che sarà presentato stamattina a Roma – piazza Venezia, 11 – è un’occasione per l’ex sindaco di togliersi qualche sassolino dalla scarpa e interrogarsi sulla sua area politica, che a tempo debito non lo ha sostenuto come era lecito aspettarsi. Prima della presentazione, in una lunga chiacchierata con noi, ha parlato dei mali della Capitale – soprattutto ad uso di chi guiderà la città dopo giugno – dei propri errori da sindaco e sul futuro del centrodestra: oggi si divide tra quattro o cinque candidati al Campidoglio e in cocci che raramente dialogano, quando nel 1993 Fini rischiò di vincere con il solo Msi.
Alemanno, il suo libro Verità Capitale si presenta come una sorta di “manuale di sopravvivenza per futuri sindaci di Roma”. Non le sembra un potenziale assist per i suoi successori, anche di aree politiche diverse?
Il “manuale di sopravvivenza”, in effetti, era il sottotitolo originale del libro. Io mi auguro che innanzitutto coloro che rappresentano la mia parte politica, poi anche gli altri leggano bene quello che è un avvertimento sui tanti problemi che Roma ha. Ancora oggi in campagna elettorale sento formulette troppo semplici, “faremo questo”, “basta con quest’altro”: in realtà i problemi di Roma sono ben altri, hanno radici antiche e profonde, fin dagli anni ’70, come pure radici più recenti, come la crisi economica nazionale e internazionale, iniziata nel 2008 e che ha schiacciato Roma.
Il 2008, giusto l’anno in cui lei è diventato sindaco di Roma. Una coincidenza niente male…
No (sorride), proprio una brutta coincidenza. Siamo passati da un periodo di relativa floridità, anche dal punto di vista dei trasferimenti statali, a una drastica chiusura. Per fortuna, prima che la crisi esplodesse, siamo riusciti a mettere in sicurezza il debito di Roma, fronteggiando quel buco di bilancio di 22 miliardi ereditato dal centrosinistra.
Lei parla di Roma come “anello più debole e problematico” della catena istituzionale, economica e sociale dell’Italia: perché?
Per due motivi. Innanzitutto Roma è il più grande comune italiano e i comuni, nella catena istituzionale, hanno pagato il prezzo più alto sul piano economico: gran parte dei tagli contenuti nelle leggi di stabilità di questi anni hanno colpito loro; viste le sue dimensioni, Roma ha subito quell’effetto in modo assai amplificato. Secondariamente, tutte le nazioni europee investono molto sulle loro capitali, pensi a Londra, Berlino, Parigi; l’Italia no, pensa piuttosto a Milano, vede Roma in modo provinciale e non investe. Questo sta creando uno squilibrio gravissimo: per uno studio recente, a Roma servirebbero 10 miliardi per stare al passo di Milano, quanto a qualità della vita.
Sempre con riferimento alla Capitale, ha parlato di un “apparato spesso inadeguato, permeabile e manipolabile da una burocrazia storicamente in mano alla sinistra”, fissando l’origine al mandato di Giulio Carlo Argan. La macchina è davvero un monolite magmatico o si semplifica troppo?
Era un monolite fino al 2008. Dall’arrivo di Argan nel 1976 fino al 2008 prima il Pci, fino ad arrivare al Pd degli ultimi anni sono diventati una sorta di “partito-comune”, un partito del tutto compenetrato negli affari della città, controllandoli e dominandoli in modo pervasivo. Col mio arrivo, questo meccanismo è saltato e, paradossalmente, una serie di apparati, di realtà interne ed esterne al Campidoglio che erano state in qualche modo create o dominate dalla sinistra sono andate “a ruota libera”, per certi versi anche peggiorando le loro performances. Per certi versi, dunque, non c’è più il monolite e probabilmente non sarà più possibile ricostruirlo, ma di fatto continuano a manifestarsi gli effetti negativi di quel monopolio trentennale della sinistra sul comune di Roma, causa di tutti i problemi profondi di questa città, dal debito al disfacimento della struttura burocratica.
Ma di quello che lei chiama “partito-comune” non c’è nulla da salvare, dagli anni ’70 in poi?
Sicuramente l’aspetto più rimarchevole coincide con l’attività culturale: penso ad esempio al Festival del cinema veltroniano, all’Auditorium Città della musica voluto da Rutelli e cose simili. Di certo questo rappresenta l’aspetto più significativo e positivo di queste amministrazioni; bisogna anche ammettere che Rutelli e Veltroni hanno lanciato grandi progettualità. Il problema di fondo è che tutto questo era parte di un’operazione giocata molto sull’immagine e sulla comunicazione, poco sui casi strutturali del comune: si è creata dunque una sorta di squilibrio tra i grandi progetti e la realtà. Nel libro ho detto che, al mio arrivo in Campidoglio dopo i due mandati di Veltroni – che ha acuito al massimo quello squilibrio – ho avuto la sensazione di entrare in un set cinematografico: bellissime le scenografie, ma dietro c’è il nulla. Questa purtroppo è la realtà: la sinistra, specie negli anni veltroniani, ha puntato la sua attenzione sulla progettualità e sulla comunicazione esterna, trascurando sempre di più la struttura dietro le spalle.
Dovendo fare una stima, quando le cose in una città o in un paese non vanno, quanto è colpa della politica, dei dirigenti e del sistema economico-finanziario?
Una cosa va detta con chiarezza: la corruzione è un grande male dell’Italia, ma si deve abbandonare la retorica per cui è il nostro principale problema. Al primo posto, infatti, c’è una crisi economica che spacca a metà l’Italia tra una minoranza di ricchissimi e la stragrande maggioranza dei cittadini che sprofonda nella povertà. Questa crisi, che genera un crollo dei redditi e dei consumi, si traduce in un impoverimento oggettivo che finisce per diventare anche una causa della corruzione: in quelle condizioni la gente è portata a essere più spregiudicata di quanto sarebbe in circostanze normali. Inutile parlare di corruzione, senza chiamare in causa le gravissime responsabilità del sistema economico-finanziario di questo Paese. A questo si aggiunge un altro problema di fondo: dalle “leggi Bassanini” in poi, la burocrazia di fatto è una struttura indipendente dall’indirizzo politico. Per questo accade che la corruzione politica, quando c’è, è percentualmente molto ridotta rispetto alla corruzione burocratica, che è molto più pervasiva ed è largamente al di fuori del controllo della politica.
Lei si era già candidato a sindaco nel 2006, perdendo la sfida con Veltroni; nel 2008 i pronostici non erano i migliori per il centrodestra e una nuova sconfitta per lei sarebbe stata pesante. Come mai volle riprovarci? Qualcuno ebbe dubbi su di lei?
Vede, nel 2008 il candidato di Berlusconi era Maurizio Gasparri e io ottenni la candidatura solo per l’intervento diretto di Gianfranco Fini. Mi ricandidai perché non volevo ripetere l’esperienza da ministro nel nascente governo Berlusconi, visto che ero già stato in qualche modo designato come ministro del Welfare, ambito di cui mi sono occupato più a lungo negli anni…
Beh, era già una promozione, rispetto al suo primo ministero, quello delle Politiche agricole.
Non c’è dubbio ma io, che per la mia esperienza precedente conoscevo i limiti del centrodestra e dei governi guidati da Berlusconi, ho preferito giocarmi un’altra partita, in modo più autonomo. Certamente non conoscevo la condizione del comune di Roma: vittima come altri della narrazione veltroniana, credevo che la città fosse divisa in due parti, che accanto a una periferia abbandonata ci fosse un cuore di eccellenza nel centro. Purtroppo questo cuore non c’era, c’erano molti più debiti, dunque la prova si è manifestata molto più dura del previsto.
Lei nel libro ha ricordato un episodio del giorno del suo insediamento: quel gruppetto di saluti romani in Campidoglio, colto da alcuni fotografi e ripreso da molti giornali. Pensa che la sua strada, dopo quel momento, sia diventata molto più impervia?
Quei saluti romani, venti o trenta al massimo su circa diecimila persone presenti in piazza, sono stati un campanello d’allarme che ha fatto presente alla sinistra romana e italiana la necessità di espellere, di circondare l’uomo di destra che era arrivato in Campidoglio. In effetti, al di là di oggettive difficoltà che c’erano e di errori reali che ho commesso, in cinque anni ho subito un accerchiamento politico-mediatico impressionante.
Cosa intende dire?
L’ostruzionismo della sinistra in consiglio comunale ha raggiunto livelli mai visti prima: l’inchiesta Mafia Capitale parla di accordi sottobanco tra destra e sinistra, ma io ho visto centinaia di migliaia di emendamenti alle nostre delibere, fino al punto di bloccare l’attività del consiglio. A questo aggiunga che tutte le redazioni romane dei giornali, escluso Il Tempo, già fortemente orientate da Veltroni in precedenza, si sono scatenate contro di me. Tutto questo ha reso ancora più difficile la mia opera: quando si è sotto attacco in questa maniera, si ha difficoltà a fare scelte difficili e di rottura che pure erano necessarie; quando arrivavo a scontrarmi con una delle tante burocrazie malate del Campidoglio, nessuno riconosceva il mio impegno, si diceva solo che Alemanno creava l’ennesimo conflitto contro i sindacati o qualcun altro.
Ostruzionismo armato dell’opposizione, il buco di bilancio comunicatole dopo l’insediamento, gli attacchi di Pietrangelo Buttafuoco: in quegli anni, da dove le è arrivata l’amarezza maggiore?
Guardi, da nessuna di queste tre opzioni. Le prime due, più che amarezze, sono state “sorprese” difficili e dure; Buttafuoco è stato un po’ l’antesignano di un centrodestra che mi ha voltato le spalle. Il vero problema, la vera amarezza è il rendersi conto di avere governato “da solo”, con tante persone che si sono allontanate o mi hanno “disconosciuto”, durante e soprattutto dopo la mia amministrazione; il centrodestra, che doveva essere il mio retroterra politico, culturale e comunicativo, invece che essere solidale e aiutarmi di fronte all’attacco della sinistra, mi ha voltato le spalle. Gran parte di quel mondo, tra l’altro, non mi sentiva omogeneo, mi avvertiva come troppo di destra, un corpo estraneo rispetto al berlusconismo dominante.
Lei, a questo proposito, non parla di tradimento, ma di “debolezza caratteriale” e di “mancanza di visione strategica”. In che senso?
Nel senso che il centrodestra, con questo atteggiamento di isolamento e di “rimozione” della mia esperienza, ha commesso due errori. Innanzitutto ha offerto un clamoroso assist alla sinistra: se le inchieste della magistratura non fossero andate avanti e non avessero messo cancellato il teorema “fascio-mafioso” che era stato tracciato in un primo tempo (visto che il 70% delle persone coinvolte si è rivelato di sinistra), il centrodestra romano e nazionale avrebbe conosciuto una Caporetto storica e politica incredibile. Non si era poi compreso che, con questo atteggiamento di isolamento e rimozione senza un vero approfondimento, non si capiscono i problemi e errori veri, dunque non si riesce nemmeno a correggerli a dovere.
Una curiosità: nel libro lei parla di personaggi politici che hanno subito dei voltafaccia e nel giro di tre righe cita Giulio Cesare, Mussolini, Craxi e Berlusconi. Ma li mette tutti sullo stesso piano?
Assolutamente no. Non creda il lettore che io sia impazzito: nel libro questi sono gli esempi che ho fatto a mia madre e mia sorella per spiegare che, in politica, tradimenti e voltafaccia sono all’ordine del giorno. Sono esempi presi “a caso”, per dire che ogni esperienza politica ha il rischio dell’abbandono e del tradimento, ma non c’è alcun giudizio di merito sui personaggi.
Come ex sindaco, quali errori si riconosce o quali scelte ora le sembrano fatte nel modo sbagliato?
Il mio primo errore è stato avere una scala sbagliata di priorità. Mi sono proiettato su una progettualità esterna, salvo poi rendermi contro che la macchina che doveva aiutarmi in questo era del tutto sfasciata, mi sono avventurato verso mete impervie con un’auto che aveva il volante rotto e le gomme sgonfie; valeva per la struttura burocratica del comune e per la capacità della squadra che avevo portato con me. Il secondo errore, comune un po’ a tutta la politica italiana, è stato il non aver lavorato abbastanza sulla cultura della legalità, che non è fatta solo di buone intenzioni: occorre un’elaborazione attenta e la formazione di una squadra adeguata per avere antidoti e capacità di controllo che preservino la squadra stessa e influenzino l’ambiente circostante. Su questo c’è molto da lavorare, in tutta la politica italiana e ovviamente anche nel centrodestra.
Qui però è stata questione di tempo o di priorità sbagliate?
Di priorità, di tempo e di imprevedibilità del risultato: nessuno pensava che la consiliatura di Veltroni sarebbe terminata così presto e francamente nessuno di noi pensava di vincere. C’è stata dunque un’impreparazione dovuta all’imprevisto, ma ripeto che si è trattato soprattutto di priorità mal poste: quando il segretario generale mi disse che non c’erano soldi per pagare gli stipendi, io idealmente sono uscito dal Campidoglio e ho iniziato a girare per ministeri sperando di risolvere la situazione, senza rendermi conto che lasciavo un Campidoglio in balia del caso. È l’errore di chi guarda in alto e non si accorge delle pietre sulla strada.
A proposito di imprevisti: non è che, paradossalmente, vincere nel 2008 le elezioni politiche e, dopo due settimane, le amministrative a Roma per il centrodestra è stato un problema, visto che il Popolo della libertà era nato piuttosto di fretta poco prima del voto?
Guardi, all’inizio è stato un vantaggio, perché senza un governo amico non sarei mai riuscito a fare l’operazione del risanamento del debito. Quando poi si è consumata la rottura tra Fini e Berlusconi, anche il governo di centrodestra in larga parte mi si è rivoltato contro. Lo svantaggio, più che altro, è stato vincere a Roma al ballottaggio, quindici giorni dopo le elezioni politiche: in quel momento, gli uomini migliori della burocrazia e della gestione politico-amministrativa erano già stati risucchiati dalle istituzioni nazionali o erano diventati parlamentari, per cui io ho dovuto operare con chi era rimasto e soprattutto giunta e consiglieri erano in gran parte composti da neofiti, dunque è stato tutto più complicato.
Un cocktail potenzialmente esplosivo…
Certo, ma c’erano altri ingredienti. Pensi alla gestione della regione Lazio da parte di Renata Polverini, tutta rivolta contro il comune di Roma, per un problema di rivalità politica e caratteriale. Non dimentichi poi che, dopo l’uscita di Fini dalla coalizione di governo, l’amministrazione di Roma si è dovuta misurare con persone come Tremonti, Berlusconi e Bossi, che avevano la testa essenzialmente a Milano oppure erano addirittura ostili a Roma. Ecco perché rapportarmi con quel governo di centrodestra è stato difficile…
Anche l’esistenza, sulla carta, di un soggetto politico unitario come il Pdl per Roma sembra essere stata una jattura. Fini stava per conquistare la Capitale con il Msi, quindici anni dopo lei dietro le spalle aveva un partito grande, ma nient’affatto unito…
Quella tra Forza Italia e Alleanza nazionale, per far nascere il Pdl, fu certamente una fusione a freddo: solo due anni dopo c’è stato lo strappo di Fini, con tutte le conseguenze note. Il fallimento di quell’esperienza si è visto a livello nazionale, ma anche locale: a Roma tutte le dinamiche nazionali si amplificano: In più mancava anche il radicamento territoriale: ha dimenticato la mancata presentazione della lista del Pdl a Roma alle regionali del 2010, forse un unicum nella storia italiana? Era questo il partito su cui avrei dovuto contare?
Deriva da questo la polverizzazione del centrodestra a Roma, cui stiamo assistendo in queste settimane?
Credo sia diretta conseguenza della crisi del Pdl, con un elemento in più: la crisi economica, che ha prodotto una frattura totale nel centrodestra di ogni paese europeo. Da una parte c’è il centrodestra classico che si riconosce nel Partito popolare europeo, dall’altra ci sono i nuovi movimenti di un populismo identitario di destra, movimenti che stanno crescendo. Sono due mondi che hanno linguaggi del tutto diversi e non riescono più a dialogare: basta vedere Forza Italia, Alfano e Marchini da una parte, Giorgia Meloni e Matteo Salvini dall’altra.
A proposito della Meloni, nel libro lei dice che, dopo la sua autosospensione da Fratelli d’Italia per l’avviso di garanzia in “Mafia Capitale”, non l’ha più sentita al telefono. Ma neanche nei giorni prima e dopo l’assemblea della fondazione An, in cui lei ha sostenuto con forza la “mozione dei quarantenni” per dare alla destra un partito nuovo?
Guardi, l’unico dialogo l’ha sempre tenuto Ignazio La Russa. Nel libro in effetti parlo di atti di solidarietà personale, ma anche dal punto di vista politico non c’è più stato dialogo tra me e Giorgia Meloni. Quello che mi ha molto impressionato e mi ha allontanato da Fratelli d’Italia è stata questa mancanza di quel minimo senso “comunitario” che dovrebbe ispirare tutte le esperienze politiche.
Ma è un problema generico o soprattutto di questa destra?
La destra ha un problema in più, perché ha conosciuto una diaspora gravissima, per certi versi simile a quella che in passato ha conosciuto il partito socialista. Si sono creati tanti gruppi in contrasto l’uno con l’altro; ora noi, creando il nuovo movimento Azione nazionale, stiamo lentamente cercando di aggregare tutti quelli che si sono dispersi e non stanno in Fdi.Fino a qualche tempo fa c’erano solo Fratelli d’Italia, il frammento più grosso che non ha alcuna intenzione di ricementare tutto il resto, e vari cocci in conflitto tra loro; ora stiamo cercando di tenerli insieme, anche con l’aiuto della fondazione An, nonostante la sconfitta di ottobre.
Meloni, Francesco Storace (se rimarrà in campo), Guido Bertolaso, Alfio Marchini e, se raccoglierà le firme, Alfredo Iorio per il Movimento sociale italiano di Saya e Cannizzaro. Non le sembrano davvero troppi, cinque candidati per il centrodestra?
Beh, innanzitutto mi pare un po’ forzato attribuire Marchini al centrodestra…
Lo spiega lei a Berlusconi?
Già … ma poi Berlusconi alla fine non lo ha scelto: Marchini ha provato a lanciare un’Opa sugli elettori del centrodestra, ma i voti li raccoglie qua e là, non è definibile con categorie consuete. Detto questo, gli altri candidati dimostrano che i voti e gli elettori per il centrodestra paradossalmente ci sarebbero, ma manca una proposta unitaria; non si è nemmeno voluto utilizzare, in una circostanza così difficile, lo strumento principe per ricomporre le differenze, quello delle primarie.
Così però al ballottaggio non si arriva nemmeno per sbaglio.
Vedremo che succederà nei prossimi giorni, ma temo che la scelta di andare divisi sia una scelta suicida. Sa qual è stata la cosa più clamorosa di queste settimane? Storace era disposto a convergere sulla Meloni senza chiedere nulla in cambio, ma lei ha risposto col silenzio più totale: è questa, credo, la dimostrazione lampante che Fdi non ha voglia di riaggregare la destra, ma è un’altra cosa.
Sosterrà Storace dunque?
Badi, quando io ero sindaco, a differenza di Giorgia Meloni, il gruppo di Storace era all’opposizione e non è stato tenero, in certi momenti è stato duro. Ha però tre caratteristiche fondamentali: ha un atteggiamento serio e non manicheo verso la nostra amministrazione, riuscendo a capire le nostre difficoltà e i nostri risultati; è l’unico tra i candidati ad avere esperienza di governo, per i suoi cinque anni da presidente del Lazio, uscendo pulito da quell’esperienza; più di ogni altro ha cercato di perseguire l’unità del centrodestra. Per me, dunque, la superiorità di Francesco Storace non è una scelta, è un dato oggettivo.
Questa frase suona come un riconoscimento dell’onore delle armi o come un endorsement?
Mah, guardi, nessuna delle due cose. Non voglio mettermi in prima linea in una battaglia in cui non devo stare in prima linea. Se però Storace rimarrà in campo, come penso, riconoscerò i suoi meriti.
E in un ballottaggio tra Roberto Giachetti e Virginia Raggi che farà? Voterà o starà a casa?
In politica mi hanno insegnato che non scegliere è sempre sbagliato. Tanto al primo turno, quanto all’eventuale ballottaggio dovrò scegliere: sceglierò in base a quello che i candidati diranno e proporranno per Roma.
C’è il rischio che lei voti Giachetti?
Non è detto, bisogna vedere cosa dirà Giachetti e io spero che ci sia un candidato di destra al ballottaggio.