Cernobyl: un perenne doloroso ricordo
Gli effetti del disastro nucleare di Cernobyl si fanno ancora sentire: la zona delimitata di 30 chilometri che circonda il reattore nucleare, pullula di animali radioattivi che vagano per la foresta ed è ancora inabitabile. Nel territorio fantasma, una Pompei sovietica, ora vivono a loro rischio e pericolo solo 600 pensionati. La radioattività dell’aria è stimata da 10 a 100 volte superiore alla quantità considerata sicura.
Cernobyl: un perenne doloroso ricordo
Alle 01:23 del 26 aprile 1986, durante un test di simulazione di guasto, le barre d’uranio del reattore 4 si sono riscaldate fino alla fusione, provocando due esplosioni che hanno scoperchiato l’edificio disperdendo nell’atmosfera grandi quantità di vapore intriso di particelle radioattive. Lo scoppio, in termini di contaminazione, è stato 100 volte superiore a quello di Hiroshima e Nakasaki messe assieme.
Il presidente ucraino Petro Poroshenko, parlando in occasione del 30 anniversario del disastro, lo ha definito, dopo l’occupazione nazista del 1940 e “l’aggressione russa in corso”, la più grande sfida del Paese. Senza dubbio l’insabbiamento sovietico è stato il più deplorevole degli errori e merita molte colpe per aver contribuito all’aggravamento della tragedia. Dodici ore dopo i fatti, una centrale di rilevamento nucleare svedese, rilevando un considerevole aumento di radioattività, ha chiesto informazioni all’Ucraina, nel frattempo però, i vigili del fuoco che cercavano eroicamente di spegnere l’incendio, i bambini che giocavano spensierati nei prati e le coppie che si sposavano all’aperto si sono riempite di radiazioni: solo dopo 36 ore è stato dichiarato lo stato di calamità.
Il 28 aprile, al telegiornale serale, la televisione di Stato ha fatto una dichiarazione di 15 secondi. Il 1° maggio, centinaia di migliaia di persone hanno partecipato alla sfilata a Kiev, mentre i livelli di radiazione erano circa 20 volte superiori al normale. La macchina della propaganda sovietica, invece che fornire informazioni, era occupata a combattere i media stranieri: il Moscow News, un giornale di propaganda tradotto in una dozzina di lingue, ha riportato un articolo intitolato “Un’avvelenata nuvola antisovietica”, nel quale denunciava “una premeditata e ben orchestrata campagna per coprire gli atti criminali del militarismo americano e della NATO”. Ai giornalisti stranieri è stato vietato l’ingresso in Ucraina.
Il KGB ha classificato tutte le informazioni, non solo del disastro, ma anche delle malattie causate. Quarantanove uomini sono morti mentre ripulivano il sito del reattore, 65 sono i morti civili accertati e 116 mila persone sono state reinsediate. L’OMS ha stimato 4 mila persone affette da cancro. La popolazione di 136.000 persone che viveva nella zona, è stata evacuata solo 10 giorni dopo la fusione nucleare. Ma al di là dell’infortunio in sé, c’è stato un fatto simbolico: in Unione Sovietica l’energia nucleare era più di un programma utile, era il progresso tecnico, la modernità, era la conquista della natura da parte del nuovo uomo sovietico, era parte della mitologia.
Invece, Cernobyl è diventato il simbolo di un’apocalisse. Svjatlana Aleksievič, il premio Nobel per la letteratura, ha scritto: “davanti ai nostri occhi sono crollati due miti, uno sociale quando l’Unione Sovietica è crollata … e uno cosmico – Cernobyl”. Il disastro e la reazione del governo hanno evidenziato i difetti del sistema sovietico, con i suoi burocrati irresponsabili e la radicata cultura della segretezza.
L’ex leader sovietico Mikhail Gorbaciov ha confessato: “ancor più che il lancio della perestrojka [ristrutturazione], Cernobyl è stata forse la vera causa del crollo dell’Unione Sovietica, è stato il catalizzatore del glasnost [libertà dei mezzi di comunicazione]. Tutto era tenuto segreto dal Comitato Centrale russo”. Gorbaciov era conscio che per rinnovare il sistema sovietico, doveva aprire i canali dell’informazione. In poco tempo glasnost ha agito veramente: ha minato il pilastro su cui poggiava il sistema: falsità. Cernobil è uno di quei siti come Pompei, è un’istantanea di un periodo della storia, è uno degli eventi paradigmatici, diagnostici del 20° secolo, è pari alla perestroika, al Muro di Berlino e a glasnost.