Riad cambia marcia, o perlomeno getta le basi per un possibile stravolgimento politico ed economico con pochi precedenti nella storia recente del Regno saudita. Con un repentino quanto deciso lavoro di scalpello, coadiuvato dalle amministrazioni centrali della monarchia, il principe Mohammed bin Salman ha recentemente tracciato i contorni del suo nuovo piano d’azione per la politica energetica del Paese. Quella messa in campo dall’erede di re Salman, è invero una visione strategica poliedrica e ad ampio spettro che investe diversi settori della vita organica dell’Arabia Saudita: dalla difesa militare, alle tematiche del Welfare, dunque alla religione. Tant’è vero che il nome del programma è “Vision 2030”.
Riad: prodromi di un cambiamento
Che Riad rappresenti ancora oggi uno dei baricentri essenziali per gli equilibri di tutto il mercato internazionale relativo all’oro nero è un dato acquisito. Tuttavia le peculiarità del programma “Vision 2030” e la recente sostituzione del ministro del Petrolio Ali al-Naimi, storico baluardo dei portatori d’interesse di una dinastia imperniata sulla difesa delle sue migliori aziende di produzione, si pensi alla ciclopica Saudi Aramco, potrebbero essere prodromi di un cambiamento di politica economica ed energetica ben preciso.
Al cuore del nuovo corso pensato dal principe Salman, starebbe la modifica degli scopi e degli intenti d’utilizzo del Public Investment Fund (Pif). Fino ad oggi tale fondo, di cui le esportazioni di greggio costituiscono una sostanziosa parte in conto capitale, era servito alle severe ed assolutiste dinastie wahabite quale forziere di ricchezze da distribuire a pioggia nelle vene del propria economia interna: grosse infrastrutture e comparto del lusso, giusto per fare due esempi. Con la nuova strategia di “Vision 2030” il Pif perderebbe parte del suo squisito uso domestico trasformandosi in un portafoglio costituito da aziende di Stato, comprendente anche la Saudi Aramco.
Per Riad si tratterebbe di un vero e proprio spostamento di paradigma economico, che farebbe muovere le sue pedine da un mercato fortemente protezionista e dirigista, verso una timida apertura d’interesse. Naturalmente non mancano i dubbi e le perplessità degli operatori sia riguardo un eventuale listino di Borsa pronto a farsi carico della potenziale nuova holding Saudi Aramco, sia per ciò che concerne il deficit strutturale di bilancio che la creazione di questo mastodontico nuovo fondo sovrano da più di due miliardi di dollari genererebbe.
Riad e il greggio: le scelte future e l’andamento del mercato
Il tempo ci dirà se e come i mercati reagiranno alle scelte di Riad sul versante della sua politica economica ed energetica. Frattanto i febbrili meccanismi della finanza relativi ai listini delle materie prime, petrolio su tutte, non smettono di fibrillare ad ogni piè sospinto.
Il greggio permane nel suo essere variabile impazzita difficilmente calcolabile o inquadrabile in un sistema di quotazioni stabili. Le ultime analisi pubblicate da Goldman Sachs danno il Brent in ripresa del 2,20 per cento, a quota 48,90 dollari al barile: la più alta nell’arco degli ultimi sei mesi. La tendenza rialzista fa credere agli analisti internazionali ormai prossima alla fine, la spirale relativa all’eccesso di offerta ed alla penuria di domanda.
In questo senso, gioca a favore il rallentamento delle estrazioni da parte delle grosse zone geografiche tradizionalmente più prolifiche: la Nigeria, dilaniata dalle feroci guerre civili interne, il cui output di produzione si è attestato ad 1,65 milioni di barili al giorno, il più basso da decenni, ma anche il Venezuela, sull’orlo del tracollo economico e finanziario, la cui industria petrolifera ha perduto 188.000 barili al giorno dall’inizio del 2016. Letta da questo punto di vista una possibile lenta emancipazione dal petrolio, da parte dell’Arabia Saudita nell’arco dei prossimi anni, potrebbe non giovare affatto.
Riccardo Piazza