Referendum Brexit: periodi ipotetici, costi e benefici eventuali
Manca ormai meno di un mese al 23 di giugno, giorno nel quale il popolo britannico dovrà esprimersi circa la permanenza del Regno Unito all’interno dell’Unione europea. Le opinioni del Vecchio continente in merito risultano profondamente diacroniche tanto che anche agli organi di stampa inglesi sembra riuscire complesso hit the nail on the head, azzeccare il giusto chiodo interpretativo della questione. L’ultimo dato estrapolato dall’agenzia d’analisi britannica YouGov dà i favorevoli alla permanenza al 42% contro un 40% di contrari ed un 13% di indecisi. Questi ultimi, è evidente, sempre più probabile ago finale della bilancia. In gioco vi è non soltanto l’uscita della Gran Bretagna dalla Comunità dei 28, la cosiddetta Brexit, ma con essa anche il potenziale sfilacciamento di un tessuto stretto di commercio e mercato, costruito negli anni sulla base dei difficili equilibri di concorrenza con le potenze continentali. Italia inclusa.
Brexit: il Regno Unito e l’arcano della crescita
All’interno di quest’aura di incertezza, secondo la Confindustria inglese, la potenziale Brexit produrrebbe un decremento nella crescita del Pil nazionale del 3 per cento fino al 2020. Il dato diverrebbe ancor più corposo, 5,5 punti percentuali, nel caso di uscita completa dall’area soggetta alla regolamentazione della Wto (World Trade Organization).
Per il Tesoro del Regno di Sua Maestà Elisabetta II, gli scenari futuri potrebbero essere tre. In tutte e tre le opzioni considerate il costo, in termini di mancata crescita, sarebbe rispettivamente del 3,8 per cento, del 6,2 e del 7,5. La seconda ipotesi, quella che contemplerebbe una perdita del 6,2%, tiene conto della eventuale rinegoziazione al ribasso dei termini di mercato e degli accordi commerciali “speciali” di cui la Gran Bretagna usufruisce grazie anche al mantenimento di una valuta propria.
Il ritorno delle importazioni e delle esportazioni inglesi con l’Europa sul Pil è aumentato del 60 per cento da quando il Regno Unito ha aderito alle legislazioni economiche del mercato di Eurolandia. Prima di tale ingresso, i flussi di introito erano fermi al 30% del Pil. I fautori della Brexit, si dicono convinti di potere assorbire senza rischi l’isteresi nervosa eventuale che si creerebbe a seguito dell’uscita dalla Ue.
Brexit: uno sguardo all’Italia
Il mercato britannico consta, per il made in Italy, di un saldo commerciale pari a 12 miliardi di euro, secondo soltanto a quello che intercorre tra il nostro Paese e gli Stati Uniti (22 miliardi). Per il Pil nostrano, il peso specifico di Londra rappresenta dunque lo 0,8 per cento. Percentuale questa che certo non si annichilirebbe con la Brexit, ma che dovrebbe essere rivista alla luce dell’inizio di una relazione di interscambio con una entità non-Ue, dunque soggetta a limitazioni tariffarie più stringenti, dazi e barriere per la mobilità delle merci sia in entrata che in uscita.
Parallelamente il possibile blocco della mobilità lavorativa, derivante da un futuribile addio all’Unione, potrebbe mettere in difficoltà le forti interdipendenze che ad oggi sussistono a livello industriale, aziendale e produttivo tra Italia e Regno Unito.
I lavoratori italiani occupati all’interno delle multinazionali britanniche sfiorano le 86 mila unità. Se con la Brexit venisse sospesa la libera circolazione del lavoro, si troverebbe a rischio il cospicuo capitale umano d’investimento, specie quello europeo con poche qualifiche trattato all’improvviso come forza lavoro non più comunitaria, più facilmente sostituibile con manovalanza nativa. Secondo alcune indagini demografiche vi sarebbero 155 mila italiani residenti in Gran Bretagna di cui 77 mila nella sola Londra. Importante anche il numero degli studenti universitari nostri connazionali che scelgono di iscriversi presso gli atenei anglosassoni: erano 3570 nel 2010/11, divenuti 5265 nell’ultima rilevazione utile relativa al 2014/15.
Riccardo Piazza