Kalashnikov e cellulari: l’Africa moderna
L’Africa cambia, non c’è dubbio: cresce economicamente, produce una classe media. Di fatto però la crescita non è affatto proporzionale all’aumento dell’accesso, da parte della popolazione, alla scuola, alla sanità, all’acqua potabile. Eppure l’Africa cambia. Per chi in Africa ci viaggia da vent’anni i cambiamenti saltano agli occhi e impongono una riflessione.
Sarò schematico. In Africa cambiano le città: Addis Abeba, Kinshasa, Maputo, Luanda non sono più le stesse, forse lì sta nascendo una nuova Africa visto che nel continente la popolazione urbana è superiore a quella rurale. Ma appena uscite da queste città l’Africa torna ad essere quella di sempre. Nell’Africa rurale la modernità si riassume in due oggetti: il telefono cellulare e il kalashnikov.
Il primo oggetto è ormai diffuso ovunque e ovunque ci sono ripetitori: un traliccio, a volte solo un palo protetto da una rete. Proprio in questi giorni sono stati diffusi i dati per un paese come la Costa D’Avorio: Sono circa 20 milioni, su 23 milioni di abitanti, gli ivoriani in possesso di un telefono cellulare. Vent’anni fa nessuno avrebbe potuto predire che le comunicazioni telefoniche potessero avvicinare tutti, quasi indistintamente.
L’altro simbolo della modernità, intesa in senso lato, è appunto il kalashnikov. Non solo in paesi come il Sud Sudan, la Repubblica Centrafricana, la Somalia dove c’è la guerra o è appena finita e le armi sono possedute da tutti, da ogni famiglia. Il kalshnikov è diffuso dappertutto. Magari si tratta di armi che hanno vent’anni, che hanno gli ingranaggi arrugginiti, che sono riposti in un angolo remoto della casa. Ma ci sono…
Nelle regioni rurali la tecnologia non è arrivata: agricoltura e pastorizia si praticano ancora con gli stessi metodi di millenni fa, i fiumi si navigano con piroghe semplicemente scavate in tronchi d’albero e sospinte da remi che sono rami adattati. Il massimo della tecnologia bellica è appunto il kalashnikov nelle sue varie versioni: con l’imbracciatura leggera, con il caricatore lungo.
Raffaele Masto