Qualche giorno fa nel pieno del marasma delle reprimende internazionali relative alla questione tutta politica del Brennero, in una Europa in pieno tormento per il rovello relativo al precario equilibrio dei confini di Schengen, l’estensione cronologica dei controlli alle frontiere per gli Stati richiedenti, e per il ripensamento dei trattati di Dublino a fronte della torrida primavera migratoria, l’Austria eleggeva il suo Presidente federale della Repubblica in un voto all’ultimo sangue, o all’ultima epistola, vista l’importanza decisiva assunta dai voti fatti pervenire tramite posta. In quello che un tempo fu l’epicentro dell’Impero austro-ungarico, ma anche la terra che diede i natali ad Hitler, eterna nemesi nostrana di un Risorgimento mai del tutto sopito né al di qua né al di là del Monte Forno, una volta dichiarato vincitore ufficialmente Alexander Van der Bellen con il 50,3% dei voti, le forze europeiste, democratiche e liberal tiravano all’unisono, proprio come in un roboante coro polifonico ben ammaestrato, un grosso sospiro di sollievo. Ciò nonostante, il candidato dell’estrema destra, Norbert Hofer del Partito della Libertà (FPÖ), con il suo 49,7 per cento di preferenze ha tracciato un solco che difficilmente non lederà il già labile velo di Maya che in questi mesi si è costituito intorno a Vienna ed alle sue decisioni politiche e strategiche.
Il voto in Austria al di là del populismo
Si dirà che l’elezione dell’economista e professore settantaduenne indipendente sostenuto dal partito ecologista dei Verdi Alexander Van der Bellen, sia semplicemente ciò che è: l’afflato unitario di una proposta politica alternativa alla xenofobia populista e discriminatoria delle destre avanzanti e recalcitranti un po’ in tutto il Vecchio continente (si pensi alla Francia, all’Ungheria, alla Polonia). Sarebbe corretto, ma forse ci si starebbe limitando soltanto a descrivere i sintomi di qualcosa di cui si ignora la natura sistemica. In Austria è avvenuto qualcosa di più profondo.
Il politologo dell’Università di Firenze Marco Tarchi ritiene che oggi, più che in passato, l’Europa faccia fatica ad imporre un genuino senso di sé. Probabilmente le ragioni, o i torti, della genesi di una proposta come quella presentata da Hofer, stanno non soltanto nelle velleità di un semplice e nuovo nazionalismo “becero”, quanto anche nelle macroscopiche lacune degli intenti comunitari.
Austria: giochi di ruolo
Il voto che ha portato alla elezione di Van der Bellen ha sostanzialmente creato due grossi bacini d’utenza e consenso attivi ed analizzabili come entità vive, corpi malleabili, fortemente influenzabili. L’elettorato rurale, quello delle grandi regioni industriali limitrofe ai grossi centri metropolitani, ha preferito di gran lunga il candidato dell’estrema destra Norbert Hofer sia al primo turno, dove quest’ultimo si era imposto su tutti gli altri concorrenti, sia al fatale ballottaggio. Per converso, nelle grandi città, il candidato indipendente sostenuto dai Verdi ha invece avuto la meglio.
L’Austria, Repubblica semipresidenziale federale, rappresenta da almeno un decennio uno dei sistemi parlamentari più stabili di tutta l’Unione europea. I partiti “istituzionali” presenti sulla scena politica di Vienna hanno infatti, negli ultimi dieci anni, sempre fornito una coalizione d’insieme stabile, maggioritaria e di governo. Il declino dei due grandi e storici schieramenti, il Partito Socialdemocratico e il Partito Popolare, di cui le dimissioni di maggio del cancelliere Werner Faymann hanno certificato la degenerazione avanzante, ha decisamente mutato i ruoli dell’intero tavolo da gioco ed è stato direttamente proporzionale alla repentina crescita delle destre e del Partito della Libertà.
Il mandato che il nuovo Presidente federale della Repubblica d’Austria Van der Bellen dovrà ricoprire durerà sei anni. Il settantaduenne liberale succede al socialdemocratico Heinz Fischer in carica per due mandati consecutivi.
Riccardo Piazza