Le relazioni tra l’Unione Europea e la Bielorussia non si sono più riprese a seguito delle elezioni contestate del dicembre 2010 e della stretta del regime di Minsk sull’opposizione. Ultimo atto: a fine febbraio, a seguito dell’introduzione di ulteriori “sanzioni intelligenti” da parte dell’UE (divieti di transito in area Schengen e congelamento dei beni a più di 200 personalità compromesse con il regime), il regime di Lukashenko ha espulso dal paese l’ambasciatore UE e l’ambasciatore polacco e richiamato i suoi ambasciatori da Bruxelles e Varsavia. Come risposta, il Servizio di Azione Esterna dell’UE ha concertato il ritiro di tutti gli ambasciatori dei paesi membri UE dalla Bielorussia, superando le ritrosie di alcuni stati membri.
Secondo il think-tank polacco Solidarity with Belarus, la principale motivazione dell’espulsione degli ambasciatori da parte di Lukashenko sarebbe interna. L’uomo forte di Minsk intenderebbe così mobilitare l’apparato statale e la comunità industriale del paese attorno a sé, indebolendo i potenziali rivali.
[ad]Il round di sanzioni del 2012 era stato deciso dopo un’intensa discussione in sede UE, data in particolare l’opposizione della Slovenia. Pare che l’oligarca bielorusso Yuri Chizh, incluso nella lista, fosse socio dell’impresa slovena Riko per un progetto di sviluppo edilizio da 100 milioni di euro, attorno al nuovo Hotel Kempinsky di Minsk: una cifra non indifferente per una piccola economia come quella slovena. Il veto sloveno aveva mandato su tutte le furie in particolare il ministro polacco Radek Sikorski (la Polonia è uno dei paesi UE più attenti alla situazione interna della Bielorussia, il cui confine passa a 200 chilometri da Varsavia); Lubiana aveva infine dovuto cedere e dare l’assenso alle nuove sanzioni.
Un’ulteriore motivo di attrito con le istituzioni europee per Minsk era dato dalla risoluzione del Parlamento Europeo del 16 febbraio. L’assemblea di Strasburgo condannava le due sentenze di morte comminate ai presunti responsabili dell’attentato alla metropolitana di Minsk del dicembre 2010, chiedendo una moratoria sulla pena di morte in Bielorussia, unico stato europeo a comminarla ancora. Il Parlamento Europeo puntava il dito anche contro la mancanza di un giusto processo e la presenza di abusi dei diritti umani degli imputati. Il ministero degli esteri bielorusso non si era fatto attendere, replicando come “il Parlamento Europeo di fatto sta con i terroristi, questionando in maniera incompetente le conclusioni dell’investigazione e la sentenza della corte sul caso. Il Parlamento interferisce scandalosamente nell’amministrazione della giustizia di uno stato sovrano, cosa che non gli fa onore”.
Le relazioni tra Minsk e Bruxelles hanno passato diverse fasi, tra coinvolgimento e isolamento. Nessuna strategia dell’UE è finora riuscita ad ottenere una qualche liberalizzazione da parte del regime bielorusso, che sembra oggi sempre più avvitato su se stesso, certo che qualsiasi concessione potrebbe significare l’inizio della fine; le condizioni dei diritti umani a Minsk e dintorni sono oggi più preoccupanti di quanto non lo fossero nel periodo 2008-2010.
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Le sanzioni UE sono state criticate su più piani. Da una parte, oltre ad essere pressoché simboliche, sono anche spesso inefficaci, poiché alcuni dei personaggi banditi dall’area Schengen riescono comunque a visitarla grazie ad eventi diplomatici internazionali: George Plashchinsky riporta, tra gli altri, il caso del ministro degli interni di Lukashenko, Anatoly Kuleshov, personalmente responsabile per la repressione del dissenso in Bielorussia, che nel gennaio 2012 ha viaggiato fino a Lione per una riunione del segretariato generale dell’Interpol. La posizione del segretario di Interpol, Ronald K. Noble è stata criticata da chi, come Louise Hogan, si chiede come condividere informazioni con la polizia bielorussa possa migliorare la sicurezza dei cittadini bielorussi: “La Bielorussia è essenzialmente uno stato di polizia. Ora può diventare uno stato di polizia con maggiori capacità e risorse”.
[ad]Secondo altri, la chiave per il cambiamento politico in Bielorussia sarebbero sanzioni economiche tanto forti da far crollare l’economia e, con essa, il regime. Tuttavia, rimarca Plashchinsky, la peggiore crisi dal tempo dell’indipendenza ha colpito la Bielorussia nel 2011, senza che alcuna protesta di piazza si sia concretizzata: i bielorussi sono oggi forse più interessati a cercare di far tornare i conti di casa che a protestare. I dati dell’istituto IISEPS, basato a Vilnius, indicano comunque che la crisi del 2011, con l’inflazione al 209% e i salari reali dimezzati, ha spezzato il contratto sociale tacito tra Lukashenko e i cittadini bielorussi: sussidi in cambio di lealtà. Per la prima volta, solo un terzo dei bielorussi ha fiducia nel presidente, e solo un quarto lo voterebbe ancora. I prestiti della Russia di Putin hanno permesso all’economia bielorussa di tenersi a galla, al prezzo della cessione strisciante delle imprese di stato, primo fra tutti il monopolio del trasporto dell’energia. Ma la situazione economica del paese resta precaria.
Come ricorda Maryna Rakhlei, da una parte sembra che solo sanzioni esterne più restrittive possano influenzare la situazione in Bielorussia, e che sia immorale negoziare con un regime che pesta i dissidenti e tortura gli oppositori incarcerati. Dall’altra parte, le sanzioni dell’UE restano simboliche e non andranno oltre i divieti di transito e il congelamento dei beni dei personaggi più compromessi; ci sarà bisogno comunque di parlare con il regime, per garantire la liberazione dei prigionieri politici e preparare un eventuale futuro. Sarà importante quindi mantenere una posizione pragmatica e tesa ai risultati.
Come uscire da questo dilemma? L’UE ha lanciato nel 2011 una strategia “dual track”: colpire l’élite attraverso le sanzioni, e sostenere la società civile attraverso donazioni, procedure facilitate per i visti, e promuovendo opportunità di formazione e impiego per i cittadini bielorussi. Portarla avanti non sarà facile, visti i tempi.
di Davide Denti