Colpo di stato Turchia: una possibile spiegazione
La situazione sembra essere tornata sotto controllo, la certezza aumenta con il passare delle ore. Le istituzioni turche hanno tenuto e la consistente fetta di popolazione fedele al Presidente Erdogan si è rivelata più tenace del previsto: il tentato colpo di stato organizzato da una parte dell’esercito sembra essere stato definitivamente smantellato. Promessa una “dura punizione” per gli insorti, colpevoli di “tradimento” della “patria”. Tutto lascia presagire un ulteriore inasprimento dell’autoritarismo che contraddistingue l’attuale corso politico turco. Adesso, Erdogan ha il tanto agognato pretesto per far “pulizia” nell’esercito.
Colpo di stato Turchia: una possibile spiegazione
La narrazione mediatica ha finora abbondantemente riferito di come i militari siano considerati i “custodi” della Turchia “moderna”, “democratica” e “laica”. Al di là del racconto, l’esercito è un vero e proprio “contrappeso” le cui incursioni in politica, sanguinose o meno, non sono insolite anche perché “previste” dalla Costituzione (dettata dai militari). Detto ciò, è noto quanto Erdogan abbia puntato sulla ridefinizione dell’identità nazionale in chiave “religiosa” se non altro per eliminare qualsivoglia contro-potere che potesse disturbarlo. “Diplomaticamente” parlando questo ha significato un progressivo avvicinamento verso il mondo sunnita, in generale, e alle Monarchie del Golfo, in particolare, parallelamente a un contestuale allontanamento dall’Occidente.
Ecco, ci si può focalizzare già su un punto, l’esercito turco non ha mai visto di buon occhio la frattura con la tradizione: la Turchia è membro della NATO e alleato fondamentale per gli Usa in Medioriente, l’esercito tiene a entrambi questi ruoli e vorrebbe che l’indirizzo della politica nazionale ne tenesse conto. In questi anni, loro malgrado, i vertici militari hanno dovuto sopportare il restringimento nella gestione del potere operato da Erdogan visto il forte consenso popolare su cui ha sempre potuto contare. Seguito, appunto, che non solo gli ha permesso di mettere all’angolo l’esercito ma anche di “infiltrarlo” collocando ai suoi vertici ufficiali ben disposti al dialogo, per dir così.
Non sembra la situazione migliore per riuscire a far saltare il tavolo, il misero fallimento di ieri basta a dimostrarlo. Ma la domanda allora è: perché provarci? Solo pochi giorni fa il premier turco Binali Yldirim aveva annunciato, tra le righe, il “fallimento” della politica estera erdoganiana degli ultimi anni e, più esplicitamente, l’inizio di una nuova strategia. “Abbiamo normalizzato le nostre relazioni con Israele e la Russia. Sono certo che torneremo a relazioni normali anche con la Siria – queste le parole di Yldirim riportate dall’agenzia di stampa Anadolu – per un successo nella lotta al terrorismo occorre stabilizzare la Siria e l’Iraq”.
Erdogan non ha mai nascosto la volontà di riaffermare la Turchia come superpotenza regionale, le rivolte arabe a tal proposito gli sono sembrate un ottima opportunità per liberarsi di scomodi alleati (Assad) e nemici più o meno pericolosi (curdi). Il progetto, però, si è presto impantanato tra Damasco e Baghdad. Per tirarsi fuori dall’empasse, Erdogan aveva pensato a un intervento di terra in Siria: opzione troppo costosa “politicamente” e dalle conseguenze ignote. Scartati i “boots on the ground”, che cosa si poteva fare se non tentare l’accordo con Mosca e Tel Aviv, attori fondamentali in Medioriente e, di certo, più “efficaci” degli attuali alleati della Turchia. E se dietro il tentato golpe di ieri si celasse la volontà di impedire a Erdogan di slegarsi da impegni ormai troppo stretti e poco convenienti?