Immigrazione: la sfida politica di un continente
Come per tante altre questioni abbandonate da una classe politica irresponsabile, la questione immigrazione sta diventando l’ennesima sfida vitale per l’Ue. Le società europee, dopo anni di crisi economica e impoverimento generale che da economico diventa in breve tempo culturale, sono sempre più insofferenti al problema. La retorica politica ha lanciato in questi anni messaggi semplificati, che hanno contrapposto la crescente esasperazione dei cittadini europei a quella dei migranti e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. In società sempre più fragili e meno coese si sono radicate ansie securitarie oggi ancor più vive grazie alla nuova ondata di terrore integralista. Si guardino a titolo di esempio i caratteri che assume questo tema nei paesi scandinavi, di solida tradizione socialdemocratica, o nel Regno Unito.
Immigrazione: la sfida politica di un continente.
Sempre più meta di immigrazione intraeuropea il Regno Unito è un esempio chiaro di come l’immigrazione sia diventata la questione determinante in termini elettorali. I relativamente generosi benefici concessi agli immigrati provenienti da altri paesi europei – tra cui i diritti sanitari nazionali e l’edilizia sociale – hanno spinto il Governo Cameron dapprima a negoziare con l’Ue un pacchetto specifico di restrizioni e, come se non bastasse, i cittadini del Regno Unito a scegliere, seppur per stretta maggioranza, di votare “leave” al celebre referendum.
In questi anni tutta l’Europa ha assistito all’avanzare di nuove destre-populiste che in maniera differente trovano terreno fertile tra le macerie dell’interminabile crisi europea, e si trovano uniche a proporre alternative di sistema nei confronti di un assetto istituzionale comunitario che continua a dimostrare la sua impotenza. In una situazione di disagio sociale diffuso, con alti livelli di disoccupazione strutturale, scaricare sul migrante di turno le inquietudini di questa larga parte della società sempre più frustrata è un gioco facile e per questo pericoloso.
Il problema dell’immigrazione – relativamente recente per l’Italia – però esiste e si lega con tanti altri problemi irrisolti del continente, disoccupazione, urbanistica, esclusione sociale, crisi demografica, deflazione ecc …
Le forze politiche tradizionali, e in particolare le sinistre europee, hanno per troppo a lungo evitato di affrontare il problema, schiave del politicamente corretto di tradizione cattolica che vede il fenomeno migratorio come inappellabile in sé e per sé. Il massimo dello sforzo teorico e pratico sul tema, oscillava tra l’enfatizzazione dei problemi di sicurezza interna e la necessità, senz’altro lodevole, di forme di aiuto paternalista al migrante ultimo sfortunato reietto del mondo degli uomini.
Volendo, però, analizzare la questione come si dovrebbe fare per qualsiasi problema di policy, è necessario evitare di partecipare al gioco delle parti tra il rancore e la purezza dell’anima. Capire gli effetti economici e sociali che il fenomeno migratorio può sviluppare nelle società europee, sottolineando alcuni aspetti politici interessanti come i costi e i benefici per le società europee e il cortocircuito tra governi in sede Ue di questi ultimi mesi; è un primo passo per una valutazione razionale della posta in gioco.
Si fanno spesso numeri e calcoli quando si parla degli effetti dell’immigrazione massiccia sulla nostra economia. C’è chi enfatizza i costi sociali di breve periodo e chi gli effetti benefici su demografia e contribuiti previdenziali che la bassa età media dei migranti garantirebbe ai sempre più vecchi stati europei.
Se è vero che gli immigrati abbassano il rapporto fra pensionati e individui in età lavorativa, è anche vero che questo effetto positivo, scontato dei costi di breve periodo, garantisce, secondo l’International Migration Outlook OCSE del 2013, un apporto alle finanze pubbliche dei paesi occidentali mediamente pari a zero.
In un articolo apparso qualche mese fa su Socialeurope, Branko Milanovic faceva il punto su alcuni costi economici poco appariscenti delle migrazioni. In particolare ricordava come l’eterogeneità culturale, etnica e religiosa contribuendo alla creazione di agglomerazioni economiche specializzate in settori in contrasto (gruppi impegnati in attività di esportazione che preferiscono una svalutazione e produttori che preferirebbero una maggiore protezione per i loro prodotti), rende meno efficiente la formulazione della politica economica di un paese, ed ancor di più per un Unione federale tra paesi.
Un altro punto interessante già sollevato da Paul Collier e da vari modelli economici, si riferisce agli effetti d’impoverimento nei paesi di emigrazione. Molti professionisti formatisi in questi paesi sono spinti a cercare impiego all’estero, dove maggiori opportunità di lavoro, salari più alti e contesti sociali più stabili e democratici consentono condizioni di vita migliori. Tutto ciò però comporta la perdita, per quei paesi, di professionisti – di cui si sono spesso sopportati i costi della formazione – a tutto deterioramento della produttività, determinando nel lungo periodo una probabile maggiore diseguaglianza globale.
Appare scontato ricordare come una buona parte dei migliori talenti formatisi nelle Università italiane siano spinti ad andare all’estero per trovare un lavoro all’altezza delle loro competenze, e che la condizione di migrante, seppur con le dovute differenze, appartiene tanto ai giovani laureati e diplomati sud europei che emigrano a fare gli sguatteri per pessime caffetterie anglosassoni, quanto ai ragazzi dell’africa sub-sahariana che affrontano i cosiddetti “viaggi della speranza”.
Viviamo in un mondo in cui la ricchezza finanziaria è libera di muoversi istantaneamente in ogni angolo del globo . Il mercato dei capitali, sciolto da qualsiasi vincolo dalle scelte politiche internazionali ed europee degli ultimi 25 anni, muove individui – intesi come forza lavoro fattore del prodotto – che si recano non per scelta e a tutti i costi, leggi repressive o meno, laddove i capitali li spingono.
Sono i dati del UNHCR che ci ricordano che la gran parte degli immigrati che giungono ogni anno in Italia sono migranti economici e, nonostante il numero dei richiedenti asilo sia notevolmente aumentato dopo lo scoppio delle crisi libiche e siriane, solo una minima percentuale risulta beneficiario della protezione internazionale derivante dallo status di rifugiato.
È un fatto che una tale affluenza di immigrati, pronti a lavorare in nero e a salari ben al di sotto degli standard sociali europei, svolga una funzione di sostituzione di manodopera in diversi settori produttivi, comportando un tipo di concorrenza con i lavoratori europei di carattere deflattivo.
Ciò, insieme alla sempre più facile possibilità di de-localizzare – favorita in Europa dalla espansione verso est (PECO) del Mercato Unico Europeo – contribuisce all’indebolimento del potere contrattuale del lavoro nei paesi in cui ancora (r)esiste un sistema di garanzia dei diritti sociali. In termini marxiani si potrebbe sostenere che l’immigrazione regolamenta la dinamica dei salari reali e favorisce i processi di deregolamentazione del mercato del lavoro, assumendo il ruolo di “esercito industriale di riserva” a prescindere dal fatto che il lavoratore immigrato sia complementare o sostituibile rispetto all’autoctono.
L’Europa del 2016 è infatti un continente che soffre una crisi occupazionale e deflattiva senza precedenti, non di certo un agglomerato di grandi economie industriali come poteva esserlo nell’ottocento. In questo senso l’inserimento nel mercato del lavoro di una massa non “selezionata” di lavoratori immigrati è ancor più complesso e contribuisce ad aggravare in modo preoccupante la celebre “guerra tra poveri” che colpisce le fasce più deboli della popolazione. Per evitare queste esternalità negative del fenomeno migratorio sarebbero necessari importanti investimenti pubblici in infrastrutture e politiche attive d’inclusione sociale che però cozzano con le limitate capacità di spesa di stati europei in fase di ristrutturazione del welfare e di tagli al bilancio pubblico dettati dai vincoli comunitari.
In tale situazione non è difficile che investire sulle politiche migratorie venga sempre più percepito come uno stornare risorse sempre più esigue da altri settori che subiscono tagli da anni. L’arricchimento culturale derivato dall’incontro con altre tradizioni perseverando su questa strada non è difficile che porti anche allo scoppio di tensioni sociali rilevanti. Se continuiamo ad analizzare la situazione dal versante delle politiche comunitarie le contraddizioni non finiscono qui.
Il trattato di Schengen sancisce la libera circolazione dei cittadini europei tra gli stati aderenti ed allo stesso tempo delega il controllo dei confini esterni dell’Unione ai singoli paesi. Su ciò s’innesta la tutela internazionale prevista per il richiedente asilo nel primo luogo sicuro. Il risultato di queste norme ha creato negli ultimi anni numerosi alterchi tra i paesi di confine e i paesi centrali ed evidenziato una spaccatura fra i paesi dell’est di giovane nazionalismo e gli stati fondatori.
Come fa notare l’economista Mario Nuti in un suo illuminante post sulla questione, la mobilità interna all’UE richiede sia dei forti controlli alle frontiere comuni, sia la convergenza delle economie dei paesi dell’Unione.
Il professore nota che quando incrementi di reddito attesi divergono tra potenziali destinazioni , i paesi più attraenti tenderanno ad essere maggiormente vulnerabili agli afflussi migratori. Da qui l’incentivo per i paesi di destinazione a innalzare le barriere nazionali, ed abolire le prestazioni sociali nei confronti degli immigrati, quando non a smantellare tout court il sistema di welfare vigente. Purtroppo i dati macroeconomici di questi ultimi anni ci rammentano come le numerose disfunzionalità del progetto europeo abbiano favorito questa divergenza tra le economie interne anziché limitarla.
Oltre alla convergenza economica la libera circolazione interna richiede una frontiera esterna comune difesa da una guardia costiera comune, da un esercito comune finanziati a livello centrale, altrimenti un tale afflusso di persone dirette in tutta Europa difficilmente potrà essere gestito in modo efficace da un solo paese. Sulle frontiere esterne forse si può aggiungere qualcosa.
I confini di un continente che affaccia sul mediterraneo si dovrebbero poter pensare come porosi e profondi, capaci di toccare le altre sponde del mediterraneo in una logica di partenariati e mutuo sviluppo che decentralizzi il potere dalla Mitteleuropa di Francoforte e Strasburgo e sviluppi finalmente le sottostimate potenzialità di quella parte dell’Europa che è ortodossa, islamica e mediterranea.
Ribadirlo adesso sembrerebbe una provocazione, ma un’attenzione politica maggiore delle istituzioni europee nei confronti del area mediterranea avrebbe forse evitato avventure solitarie e decisioni estemporanee troppe volte rilevatesi pericolose nella storia recente. Allo stesso modo anche la questione della ripartizione per quote dei migranti risulta controversa senza delle reali frontiere comuni e con un Ue già di fatto a due se non tre velocità.
Gli immigrati tendono a scegliere la loro destinazione in base alla massimizzazione del miglioramento delle proprie condizioni di vita, tanto che una ricollocazione può essere pensata soltanto per quella piccola parte di aventi diritto allo status di profugo, che è teoricamente obbligata a rimanere nel territorio del paese che ha accettato la richiesta d’asilo. In pratica, però, abbiamo visto come le marce dei rifugiati siriani dei mesi scorsi fossero dirette verso i paesi europei più prosperi.
Allo stesso modo un’allocazione forzata per i migranti non scoraggerebbe di certo nuovi spostamenti verso i paesi con migliori prospettive di reddito percepite, tanto da giungere al paradosso che una misura come quella da mesi in discussione nelle riunioni del Consiglio Europeo per salvare Schengen può essere intrapresa solamente ripristinando i controlli alle frontiere. Detto delle difficoltà della situazione attuale, le soluzioni non sono affatto semplici e pertanto sarebbe bene limitarsi a qualche sommesso ragionamento.
Si tratta di adottare misure che non includono soltanto la limitazione del numero di migranti economici da accogliere, ma che incidano sul conflitto distributivo e il generale ridimensionamento del modello sociale di democrazia europea, ridando valore all’obiettivo del pieno impiego. Nel mondo come lo conosciamo, la solidarietà internazionale non è un diritto automatico di coloro che ne hanno bisogno. Purtroppo è una concessione discrezionale da parte di chi si può permettere tale atto di generosità, e può essere esercitata solo quando sostenuta in modo solido da una collettività democratica.
Sul versante internazionale, sebbene il numero di migranti non possa essere direttamente controllato dai leader politici occidentali, vanno disincentivati i fattori che incoraggiano le persone ad emigrare. Un sistema integrato di Hot Spot, non solo in Sicilia o nelle Isole greche, ma anche nelle vicinanze delle zone di crisi stesse che perfezioni il procedimento di richiesta di asilo, va promosso contestualmente ad una radicale riforma del sistema dei campi profughi.
I campi troppo spesso sono sterminate baraccopoli che si reggono per decine e decine di anni sull’assistenza umanitaria; è necessario, come si ripete ormai da troppi anni, trasformarli in zone economiche produttive dove la vita degli sfollati riesce a riacquisire una normalità per mezzo del lavoro.
A livello della politica interna europea il pericolo più grande sembra derivare dal fatto che l’enfasi costante con cui viene raccontata (media) ed affrontata (politica) “l’emergenza” immigrazione, induca psicosi collettive e timori spesso irrazionali che finiscono per occultare i problemi reali alla base della questione analizzata finora. La migrazione se da un lato sembra poter aiutare il sistema pensionistico di paesi sempre più vecchi, dall’altro rafforza la volontà dei governi di ridurre le prestazioni sociali a tutto tondo, ponendo una reale minaccia per l’integrità dello stato sociale europeo che ha radici storiche prettamente nazionali, basate su comunità omogenee dove la gente rispetta le medesime regole e si aiuta reciprocamente.
Dati i vincoli attuali sembra proprio che le istituzioni europee continueranno a non affrontare il fenomeno secondo una logica di ottimizzazione economica e sociale e gli Stati, sola autorità ancora percepita come legittima di fronte alla crisi dell’UE, saranno costretti ad adottare forme di protezionismo nelle politiche sociali, introducendo discriminanti all’accesso ai servizi base di welfare o agendo su aspetti legati alla regolarità del soggiorno, pur di evitare lo sfaldamento delle comunità di cui sono ancora in larga parte responsabili.
Soltanto se l’insicurezza economica degli elettori derivata da una crisi che dura da troppo tempo verrà ridotta si potrà pensare a delle politiche attive per fare dell’immigrazione una risorsa economica e non un problema sociale.
Se la politica europea continuerà a seguire il sentiero del disimpegno, a non proporre serie e radicali iniziative per provare a riparare le fratture interne di cui spesso scrive Munchau sul Financial Times: Nord-Sud moneta unica e controlli alle frontiere, est-ovest sulla riallocazione dei migranti, e in più il principio di disgregazione che implica la Brexit; far approvare il Migration compact o prorogare il programma Frontex non impedirà né ulteriori stragi in mare né derive securitarie dagli esiti istituzionali imprevedibili in tutt’Europa.
Luca Scaglione
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Miraglia R., “OCSE: l’impatto del welfare pagato agli immigrati è quasi irrilevante”, IlSole24ore, 13 giugno 2013
https://www.socialeurope.eu/2016/01/migrations-economic-positives-and-negatives
http://dmarionuti.blogspot.it/2016/03/schengen-and-european-migration-crisis.html
Paul Collier Exodus: How Migration is Changing our World Oxford University Press; 1 edition (October 1, 2013)
http://www.project-syndicate.org/commentary/failure-of-free-migration-by-robert-skidelsky-2016-07