Femminismo in Italia: una lotta difficile, ostacolata dalle nostre stesse radici storiche.
Una generazione e mezzo fa, il movimento femminista in Italia riuscì – sia per meriti propri, sia per la congiuntura favorevole – ad ottenere grandi successi sul piano normativo. La legislazione su divorzio e aborto (rispettivamente nel 1970 e nel 1978) sono state sicuramente le due battaglie più conosciute di uno dei “nuovi movimenti sociali” (che si differenza dai tradizionali, in primis, per l’interclassismo) più attivi nell’epoca della massima politicizzazione in Italia. Dopo la decade d’oro del femminismo italiano, il movimento comincerà a perdere di vigore, fino a diluirsi in giustificante per pratiche politiche che non miravano a un egualitarismo di genere. La perdita di appeal del movimento ha facilitato l’appropriazione della terminologia femminista da parte del potere politico, cambiandone – pertanto – il valore di fondo (che, come affermato precedentemente, punta all’egualitarismo). In assenza tanto di un movimento femminista realmente attivo, tanto di un partito che si faccia carico delle istanze fondanti del femminismo, sembra che le lotte per l’egualitarismo si siano affievolite, se non spente. Quali sono le cause principali attribuibili alla debilitazione del movimento femminista in Italia?
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La costruzione della disuguaglianza di genere procede direttamente dal retaggio religioso.
È indubbio che le strutture sociali pre-esistenti in Italia – se volessimo fare alcuna distinzione tra nord e sud- siano state tra le più rigide in termini di genere: lo spazio pubblico è stato dominato quasi esclusivamente dall’uomo, mentre che la donna si è ritrovata libera di agire solo in determinati ambiti della sfera privata. Fin qui, non sembrano esserci grandi differenze dal resto del mondo occidentale. Ciò nonostante, il ruolo svolto dalla religione (in particolare dalla chiesa cattolica) e dalla sua ideologia, ha legittimato una struttura sociale eteropatriarcale. Le ragioni per affermarlo sono abbastanza chiare: le principali figure presenti nelle istituzioni cattoliche possono essere unicamente uomini, ed è condannato ogni tipo di deviazione dall’orientamento eterosessuale. La presenza massiva delle istituzioni cattoliche, dei veri e propri punti di riferimento all’interno delle singole comunità, è stato il veicolo di trasmissione dell’ideologia religiosa che ha legittimato una società retta su due identità ben delineate e disuguali: la figura maschile è il perno della sfera pubblica. È caratterizzato da una superiorità morale, necessaria ai fini della gestione della “cosa pubblica”. Al contempo,l’identità femminile è biblicamente associata alla tentazione (quindi una moralità inferiore) e alla primigenia subordinazione della donna – in quanto nata da una costola dell’uomo -. La presenza fisica del centro di gravità della religione cattolica all’interno del cuore del Paese, ha inciso in maniera decisiva sul suo radicamento nel sistema di valori nazionali. Non solo: secondo il celebre geografo politico John Agnew, l’assenza di una vera identità nazionale ha permesso alla coscienza religiosa di essere il fondamento della futura identità italiana. Si può evidenziare, in questo modo, come le disuguaglianze di genere siano state sostantivate fin dall’unificazione d’Italia, nella ricerca di una identità nazionale.
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La mancanza di partiti che incorporino la prospettiva femminista
Tenendo in considerazione le radici della disuguaglianza di genere all’interno dello Stato Italiano, possiamo fare un salto in avanti e arrivare alla storia più recente del nostro Paese. Meno che per i Radicali di Marco Pannella, nessun partito di rilevanza ha incorporato una prospettiva femminista per l’azione politica. Per quanto riguarda la prima repubblica, non solo la DC ma anche il MSI contenevano una prospettiva cattolica che contrastava con la ricerca dell’egualitarismo femminista. Il Partito Comunista Italiano, altresì, si rifaceva al tradizionale movimento operaio (così come, in origine, il PSI) non incorporando una visione femminista, effettivamente mai toccata concretamente da Marx ed Hengels. Secondo una delle teorie politiche classiche, un partito si costituisce lì dove si riscontra una discrepanza tra le necessità sociali e l’offerta politica. Allo stesso modo, è possibile che un partito già affermato e con rappresentanza si faccia carico delle istanze di una parte della società, incorporando tale prospettiva alla propria azione politica. La mancanza di un partito che incorpori le istanze femministe si deve alla effettiva assenza – sul piano sociale – di una richiesta sensibile. Il contesto sociale e politico non favorisce, come si può ben vedere, lo sviluppo di un forte movimento femminista, minimizzando (NB: non la elimina del tutto) la necessità di incorporare una prospettiva egualitaria. In questo processo negativo di retroalimentazione, si instaura una ulteriore causa di occlusione verso l’egualitarismo.
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Politiche pubbliche che agiscono prima sulla struttura istituzionale piuttosto che su società e cultura.
Le politiche pubbliche che si prefiggono di ridurre le disuguaglianze di genere, agiscono prevalentemente sul piano strutturale: ovvero, attraverso l’introduzione di norme che possano agevolare l’equilibrio (nei termini di opportunità e di rappresentanza) tra i sessi. Probabilmente, la prima normativa che vi verrà alla mente sarà quella relative alle quote rosa. Certamente, in una società fortemente patriarcale, l’introduzione di una norma simile non rispecchierà la realtà sociale. In primis, bisogna operare sulle fondamenta della società: sulla cultura, sull’educazione, sulla socializzazione fondata sull’uguaglianza di genere. Operando in questa direzione, le riforme strutturali-istituzionali saranno non solo accettate dalla società, ma viste come una naturale finalizzazione di un processo, piuttosto che una “forzatura del sistema”.
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L’(in)utilità di rigurgiti femministi a sé stanti come summa dell’attuale situazione del femminismo in Italia.
Dal “trio delle cicciottelle” al “Fertility Day”, assistiamo a continui rigurgiti femministi a sé stanti e totalmente innocui per la struttura sociale. Spero di non essere frainteso. Il rigurgito è uno stimolo riflesso, non ragionato. Nell’era della realtà digitale, tale rigurgito è sicuramente intenso (basti pensare all’innumerevole quantità di indignati che inonda la rete) ma fine a se stesso, in quanto non v’è un movimento ragionato che cristallizzi le istanze femministe e le razionalizzi, mettendole alla portata di cittadini, elettori e partiti. Fino a quando non risorgerà un movimento femminista cosciente e organizzato, continueremo ad indignarci, a sbraitare e crocifiggere certi comportamenti; per poi riprendere tranquillamente con le nostre vite, aspettando con ansia la prossima occasione per potersi indignare, sbraitare e crocifiggere. Piuttosto che pensare e agire, per costruire una società migliore ed egualitaria.
Alessandro Faggiano