Brexit: il dilemma di Londra, uscita hard o soft?
La capitale del Regno Unito si trova oggi al cospetto di un dilemma delle parti. Se Brexit fosse una commedia, Shakespeare sarebbe certamente in grado di interpretarne l’amletica ambivalenza, magari portandone in scena le migliori ricostruzioni presso il Globe Theatre, nella cornice del Blackfriars Bridge. Eppure il primo ministro inglese Theresa May, intervenendo domenica scorsa durante il congresso del Partito conservatore tenutosi a Birmingham, ha escluso vi possano essere, per la Gran Bretagna, due strade diverse. Non vi sarebbero, stando al suo discorso condotto con cipiglio deciso dinanzi alla attenta platea dei Tories, due strategie d’uscita (soluzioni che gli analisti d’oltre Manica definiscono già quali “Hard” e “Soft”): “La dicotomia non esiste”. Ciò nonostante, la politica è la scienza del possibile e plurime le dinamiche di abbandono del colosso europeo in gioco.
Brexit: il congresso di Birmingham
L’unica certezza che trascende le sorti del congresso di uno sfilacciato quanto attualmente debole Partito conservatore britannico – ad onor del vero “se Atene piange Sparta non ride”, viste le attuali vicissitudini di rappresentanza interna in casa Labour – è quella di una scadenza d’orizzonte programmatica ormai chiara: entro marzo del 2017 Londra procederà con la formalizzazione delle prassi di uscita dall’Unione europea, invocando dunque l’articolo 50 del Trattato di Lisbona. Il premier Theresa May ha mostrato sicurezza durante tutto l’intervento affermando un sostanziale superamento di buona parte delle consuetudini giuridiche e commerciali ad oggi in vigore con il Vecchio continente: “Abrogheremo molte delle leggi dell’Ue”.
All’indomani delle importanti scelte seguite al referendum del 24 giugno, l’economia del Regno Unito ha retto discretamente l’urto del repentino crollo in Borsa di alcuni titoli del settore bancario e delle mordaci fluttuazioni negative di mercato gravanti sulla Sterlina. Questo non deve però trarre in inganno: Brexit, in quanto fenomeno in sé, rappresenta ben più di qualche strascico finanziario tendenziale, implica invece grosse revisioni dei rapporti commerciali, di economia reale, industriali e del sistema del lavoro, da tempo rodati fra Europa e Gran Bretagna, che non potranno che divenire nel tempo.
Brexit: alcuni scenari economici
La partita tra Downing Street e Bruxelles si gioca dunque sulle modalità specifiche del divorzio. Il Regno di Elisabetta dovrà decidere, ancora una volta, quale addio confezionare con i partner continentali salvaguardando i propri interessi commerciali garantiti dai trattati alla base della World trade organization (Wto). Una prima quanto estrema soluzione, caldeggiata in queste ore da alcuni ministri dell’esecutivo, potrebbe essere l’uscita di Londra dal mercato unico ed il ritorno ai fondamentali del Wto senza accordi peculiari con l’Ue. Tale prospettiva “dura” metterebbe tuttavia a rischio gli scambi delle merci, dunque anche l’intero mercato del lavoro, a causa dell’immediata attivazione delle tariffe sulla manodopera estera. Il Cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond ha indugiato, non a caso, sul valore aggiunto delle risorse umane d’importazione per l’economia del Paese, smussando così i contorni di una eventuale Brexit spigolosa.
I prossimi nodi da sciogliere saranno le condizioni delle imprese e delle produzioni industriali: il libero scambio appare una discriminante fondamentale. Londra potrebbe concedere l’adesione formale con condizioni ad hoc, diverse, ad esempio, da quelle attuali di Norvegia e Svizzera, in luogo della circolazione dei cittadini comunitari. L’Unione europea, in tale scenario futuribile decisamente più morbido, implementerebbe degli ipotetici vincoli doganali riguardanti soltanto alcune tipologie di beni e servizi in un’ottica di profitto per entrambi i blocchi. Ad ogni modo, tutto è ancora da definire, ma il conto alla rovescia è cominciato.
Riccardo Piazza