I 1000 giorni di Renzi
Il 22 febbraio 2014 è nato ufficialmente il governo Renzi. L’ex-sindaco di Firenze (che per allora, per circa due settimane, ricoprì entrambe le cariche) riceveva così la benedizione di Napolitano. Un governo “nato sotto il segno delle riforme”, come hanno ripetuto più e più volte i massimi esponenti dell’esecutivo. In questi due anni e mezzo, il fiorentino è riuscito a portare a termine molte delle riforme che aveva promesso, seppur con una lunga serie di chiaroscuri.
1000 giorni di Renzi: come cominciò
È entrato dalla “porta di servizio”, senza passare da elezioni, nonostante la sua convinzione iniziale. Attraverso una votazione interna al partito, senza passare per una mozione di sfiducia in Parlamento, Letta si dimette da capo del governo. Tra l’altro, lo fa in punta di piedi, consapevole della sua scarsa popolarità.
Renzi confermerà buona parte della squadra ministeriale di Letta, ma la svecchierà con degli innesti importanti. Una su tutti: Maria Elena Boschi, ministra per le riforme e con l’importante compito di gestire le relazioni con il Parlamento. Spicca la assoluta preponderanza di ministri provenienti dalle regioni del centro e del nord. Unico rappresentante del Sud è Angelino Alfano, leader di NCD.
1000 giorni di Renzi, la più importante delle riforme: il ‘Jobs Act’
Per il premier, il jobs act è stato il suo maggior successo. La flessibilizzazione del lavoro, la relativa precarizzazione, la semplificazione dei contratti e l’abolizione dell’ “anacronistico” art.18. Il tutto, condito da una forte dose di incentivi per l’assunzione dei giovani. Da un lato, questa politica espansiva ha permesso un incremento immediato dei posti di lavoro. Dall’altro, però, la fiacchezza dei diritti dei lavoratori – drasticamente ridotti dall’abolizione dell. art.18 – non ha permesso di convertire quelle assunzioni in lavori stabili. I risvolti negativi della riforma, tuttavia, non si fermano qui. La forbice occupazionale tra Nord e Sud si è ulteriormente ampliata. La legge si è dimostrata efficace per il modello produttivo del centro economico del Paese, ovvero il Nord. I livelli occupazionali nel Mezzogiorno sono stati beneficiati solo marginalmente dalla riforma del lavoro.
Il jobs act, ‘in summa’, ha creato posti di lavoro e rilanciato (in parte) l’economia. I dati macroeconomici, sotto questo punto di vista, danno ragione a Renzi. Tuttavia, non si possono ignorare le falle – o debilità – della stessa. La precarizzazione del lavoro (circa il 71% dei nuovi posti offerti), il pagamento attraverso Voucher (che inflazioni gli stessi dati occupazionali) e l’asimmetria degli effetti tra Nord e Sud, sono i maggiori aspetti negativi della riforma. In molti aspetti il Jobs act ha prodotto effetti simili alla reforma labural di Mariano Rajoy (PP, destra conservatrice) in Spagna. Ovvero: incremento del PIL e degli indicatori macroeconomici, da un lato. Radicalizzazione della forbice di disuguaglianza, oltre a una minor stabilità dei lavori offerti, dall’altro.
1000 giorni di Renzi, le altre riforme: dalla ‘Buona Scuola’ alla riforma costituzionale, fino a quelle da “boy scout”
Il premier assicura che la riforma più importante è stata, senza dubbio, il Jobs act. Ma dovesse scegliere a quali tiene più a cuore, risponde senza batter ciglio: “a quelle da boy scout”. Renzi intende le riforme che incentivano la cultura, educazione e ricerca. In questo senso, l’ex-sindaco fiorentino ha trovato, in Dario Franceschini, uno dei suoi migliori ministri. Discorso totalmente distinto per il tema dell’educazione. La Giannini (MIUR) è – secondo gli indici di gradimento – tra le peggiori ministre dell’esecutivo. La ‘Buona Scuola’ e atti correlati hanno fatto storcere il naso ad alcuni settori per l’ennesima riforma dei criteri di selezione, oltre agli scompensi provocati da assegnazioni in luoghi molto distanti da quello di residenza. Lo sblocco delle assunzioni non è bastato a placare il coro di dissenso proveniente da una parte del mondo di educatori e insegnanti.
Impossibile omettere il famoso bonus di 80 euro in busta paga, inserito sotto la voce “bonus Renzi”. Dalla totalità dell’opposizione e da una parte della minoranza, è stata definita come una mancia elettorale, a fronte dell’idea di giustizia sociale di Renzi. Lo stesso discorso si è ripetuto – forse ancor più intensamente – con il bonus da 500 euro ai neo-diciottenni, da spendere in attività culturali. Il premier è stato accusato di voler comprare il primo voto dei nuovi elettori italiani. L’accusa rivoltagli dall’opposizione, quindi, è quella di puntare su semplici palliativi piuttosto che sugli investimenti strutturali. Come esempio riportato da alcune opposizioni, con il costo della riforma, si sarebbe potuto finanziare il fondo per le borse di studio.
1000 giorni di Renzi: una leadership forte ma che divide
Il premier ha personalizzato l’esecutivo fin dal primo giorno. L’impatto degli altri ministri, anche sul piano mediatico, è stato molto minore rispetto a quello del premir Attraverso l’utilizzo reiterato dell’istituto fiduciario, il governo è riuscito a portare avanti un gran numero di riforme. Di fatti, l’esecutivo ha assunto – più di altri governi – il compito del Parlamento, in qualità di co-legislatore. Il tipo di leadership del fiorentino non ha giovato alla sua immagine dentro il partito. Inoltre, la retorica utilizzata – di una “Italia che ce la fa, che spera” contro “l’Italia dei gufi, del ‘No’, della vecchia politica” ha rafforzato la distanza tra i seguaci del premier e quelli dei suoi oppositori.
Ritratto del renzismo
L’impatto sulla scena politica di Matteo Renzi è stato talmente forte e innovatore da creare un vero e proprio “renzismo”. Alla base vi è una importante qualificazione morale. La dicotomia “buono/cattivo” si sostiene attraverso un criterio anagrafico. Il premier si è sempre definito come “rottamatore” della vecchia politica. Pertanto, il segretario del PD rappresenta il “nuovo, giovane, buono e speranzoso”, che si contrappone al “vecchio e cattivo gufo dell’Italia che non avanza”. La terminologia adottata da Renzi è paternalista (per la genuinità attribuita agli atti governativi) nella chiamata alle riforme. Renzi sostiene che nonostante l’impopolarità di alcune riforme, queste siano (nella fattispecie) necessarie. Punta sul filone narrativo dell’urgenza, sul drastico “aut-aut”.
La summa è la personalizzazione del referendum, figlia di una retorica e di una narrativa sviluppata in questi 1000 giorni di presidenza. La personalizzazione dell’esecutivo può essergli risultata utile, per portare avanti la gran parte delle riforme. Senza dubbio, però, la stessa narrativa che gli ha permesso di polarizzare l’opinione pubblica potrebbe far saltare definitivamente il quarto governo più longevo della nostra storia repubblicana.