INTERVISTA Referendum, Follini: “Il mio no a una riforma che divide”
Ufficialmente ha abbandonato la politica attiva nel 2013, quando ha riconsegnato la tessera del Pd, ma Marco Follini non ha mai smesso di respirare politica. Tant’è che il 4 novembre, a un dibattito sul referendum organizzato alla Camera da un gruppo di sostenitori del “no” (a partire dal libro No allo sfregio della Costituzione), tra i relatori c’era anche lui. Il suo “no” è convinto, ma la sua posizione non si può liquidare facilmente come “contro Renzi” o “Prima Repubblica”. Anche perché lui, da qualche anno, ha cambiato mestiere (dal 2014 guida l’Associazione produttori televisivi) e a un seggio, per sua stessa ammissione, non ci pensa più.
A non piacergli è proprio la riforma in sé, per una questione di metodo (“è divisiva, dunque non fa bene”) e per alcuni suoi contenuti, a partire dalla conformazione del Senato e dalle sue nuove attribuzioni, che rischiano di creare un “bicameralismo conflittuale” permanente. Altri punti sarebbero meno problematici, come il riordino di competenze tra Stato e Regioni o l’intervento sugli istituti di partecipazione popolare; per Follini, però, la riforma sbaglia le priorità, preferendo velocizzare le decisioni al tentativo di riavvicinare davvero le istituzioni ai cittadini. Nel frattempo, per svelenire il clima, occorrerebbe fare di tutto per distinguere l’esito del referendum da quello del governo che ha proposto le riforme, per poi ricominciare seriamente – in caso di vittoria del “no” – a parlare di riforme. A patto, sempre secondo Follini, che siano quelle davvero utili al Paese.
Follini, andiamo subito al punto: perché “no”?
Beh, intanto io voto no perché queste sono riforme che dividono, mentre il senso delle riforme è cercare di unire, di tentare di celebrare un rito di unità del paese. Non ho mai partecipato al balletto retorico sulla “Costituzione più bella del mondo”, anche perché chi studia un po’ le costituzioni ricorda che tra le più belle c’era quella di Weimar, che non ha esattamente portato fortuna alla Germania degli anni ’20 o ’30. Tuttavia, il valore dell’impresa costituzionale tentata e riuscita nel dopoguerra fu quello di costringere democristiani e comunisti, repubblicani e monarchici a scrivere insieme le regole del gioco e questo avvenne in un contesto molto più drammatico di quello, pure non piacevolissimo, che ci tocca attraversare.
E allora?
Trovo che il principale difetto di questa riforma e del corteo – principalmente governativo – che la sta accompagnando a destinazione sia quello di spargere una considerevole quantità di sale sulle ferite politiche che ogni giorno ci infliggiamo a vicenda. Questo difetto è acuito da una campagna di comunicazione massiccia e fortemente personalizzata che il premier ha innestato sul tronco di questa riforma.
Dice che la riforma divide, ma dipende dall’idea stessa di riforma? Da chi la porta avanti? Da alcuni contenuti?
Secondo me divide innanzitutto per l’identificazione tra il destino della riforma e la sorte del governo. Molti di noi si richiamano a quella nota frase di Piero Calamandrei, secondo il quale all’atto dell’approvazione della Costituzione i banchi del governo sarebbero dovuti restare vuoti: in effetti andò un po’ così, visto che il governo si chiamò fuori. Il disegno costituzionale resistette anche a un cambio drammatico dello scenario politico: si cominciò nel 1946 con i governi del Cln e si attraversò la rottura della collaborazione tripartita, con lo sbarco di comunisti e socialisti dal governo, ma si approvò tutti insieme un testo in cui, appunto, si riconobbero fazioni politiche che intanto, nelle strade, si combattevano con una certa asprezza. Questo miracolo fu reso possibile dalla saggezza dei padri costituenti, ma anche dalla sobrietà e discrezione con cui il governo De Gasperi accompagnò quel percorso. In questo caso si è fatto il contrario: si è preteso che la riforma costituzionale fosse il timbro di validità da apporre sulla copertina di un governo che, non essendo stato “votato” dagli elettori, sentiva il bisogno di avere una legittimazione. Ma, insisto, poiché quella legittimazione divide, io non mi sento di partecipare.
Curiosità: se la stessa riforma, o una simile, l’avesse proposta un governo guidato da una persona non “catapultata” a Palazzo Chigi senza essere stata eletta in Parlamento, sarebbe stata altrettanto divisiva?
Probabilmente ci sarebbe stata una divisione diversa, magari sui contenuti della riforma. Io mi confesso critico anche dei contenuti, in particolare delle soluzioni trovate al noto del bicameralismo e del destino del Senato, mentre altri punti possono essere più condivisi. Il difetto, però, è nel manico, in un’impostazione che mette insieme uno sforzo di ridisegnare gli assetti istituzionali, che dovrebbe riguardare tutti in egual misura, e contemporaneamente una battaglia campale tra i fautori del governo e i suoi oppositori. Naturalmente sarebbe ingeneroso fare carico di questa difficoltà solo ed esclusivamente al governo: le opposizioni, perché il cammino andasse in questa direzione, hanno fatto del loro meglio…
… e del loro peggio…
… e del loro peggio, condivido. Però, secondo me, chi ha responsabilità di guida dovrebbe essere tenuto maggiormente alla prudenza, a dosare meglio le sue forze.
Crede che, la prima volta in cui Renzi disse con chiarezza “Se vince il no, mi dimetto”, lui si immaginasse una reazione così forte da parte di chi non lo sosteneva e, in generale, dal fronte del no?
Io temo che lui immaginasse una passeggiata trionfale, un risultato scontato, avendo la fortuna di accumulare dalla sua parte il consenso di chi coltiva l’ordine, e tende a schierarsi dalla parte del governo, e di chi anela al cambiamento e può immaginare che la riforma metta in moto le cose. La prima cosa ha funzionato, la seconda mi pare molto meno.
Se lo scontro è diventato molto personalizzato, molto lo si deve a quella prima uscita di Renzi: secondo lei, però, la compagine molto eterogenea del “no” al referendum ha sbagliato qualcosa? Era giusto cogliere quell’occasione per cercare di togliere di mezzo Renzi oppure altre strategie avrebbero pagato di più?
Vede, il “sì” ha una strategia: è un governo, una maggioranza, un insieme di forze che hanno intenzione di collaborare anche dopo, per cui è a tutti gli effetti uno schieramento politico. Il “no” non è la stessa cosa: è convergenza del tutto erratica e casuale di forze che non hanno in comune nulla e non pretendono di avere nulla in comune, sanno bene che il giorno dopo il loro percorso si divide. In questo l’asticella del “sì” è più in alto, il “no” non deve dar conto di sé, perché in quanto tale non ha un futuro, mentre il “sì” pretende di averlo: la differenza sta tutta lì.
Il “no” non dovrà dare conto di sé, ma a quanto pare i suoi esponenti devono farlo in qualche modo: quante persone accusano certi schierati per il “no” perché “votate con Berlusconi, Salvini e CasaPound”, o quanti non sono convinti della riforma ma non vogliono votare allo stesso modo di quei soggetti?
Guardi, quando mi capitò di dire per la prima volta che avrei votato “no”, fu durante un’intervista al Corriere della Sera. Quando mi venne chiesto conto della “compagnia”, io per primo dissi: mi dovrò accompagnare per qualche tempo, per qualche tratto di strada con persone con cui non mi farei vedere in giro la sera e viceversa. Siamo tutti consapevoli di questo, ma – insisto – il “no” è una compagnia che si scioglie il giorno dopo, anzi, a stretto rigore non è neppure una compagnia: posso sottoscrivere, al netto delle intenzioni non proprio amichevoli, l’etichetta di “accozzaglia”.
Il tema però non sono questi schieramenti, che almeno dalla parte del “no” sono assolutamente transitori e privi di significato politico: il tema è quale strada vogliamo cercare di imboccare come paese. Da un lato c’è il confronto sul merito della riforma, dall’altro c’è un interrogativo che verte sulla filosofia che sta dietro alla riforma. Io per la verità della riforma contesto l’uno e l’altro, il contenuto e i sottintesi, ma è su questo che vorrei aprire un confronto.
Andando appunto sui contenuti, non posso non partire dal Senato, di cui si è parlato molto, forse pure a sproposito: lei stesso il 4 novembre ha chiesto di non parlare più di “deriva autoritaria” per non regalare “altri voti al fronte del sì”. C’era bisogno di puntare proprio su questo argomento, tra quelli possibili?
… e infatti io non cito la deriva autoritaria come argomento da spendere.
E’ riuscito a farlo capire anche agli altri “compagni di viaggio”?
Non sono il loro precettore, so che non ascolterebbero i miei consigli: ognuno mette in campo le sue ragioni. La mia ragione fondamentale è che questa è una riforma che non funziona: corregge il bicameralismo perfetto introducendo un inedito bicameralismo conflittuale. Se questa riforma entrerà in vigore, noi scopriremo il giorno dopo che Camera e Senato faranno a pugni tra di loro: oggi i due rami sono costretti alla collaborazione, cosa che può rallentare alcuni processi legislativi, ma non più di tanto (come dimostra il dibattito su questo punto). Mettiamo pure, però, che si ottenga una maggiore speditezza, ma questa speditezza verso dove ci porta? Io penso che il primo effetto della riforma sarà quello di veder litigare Camera e Senato.
Dunque, se finora sono state le persone, con il loro comportamento, a rendere farraginoso il sistema, in futuro i problemi potrebbero venire dalle stesse regole che hanno ridisegnato il sistema bicamerale?
Certo, proprio così. Il problema per me è più profondo. Noi teniamo in piedi con la riforma un Senato che ha tutte le fattezze di un’assemblea minoritaria, perché non è eletto dal popolo e non vota la fiducia al governo: è quindi un Senato che parte per essere una sorta di Camera di serie B; oltretutto, questa cosa viene detta a loro anche con una certa brutalità. Noi allora dobbiamo immaginare la sceneggiatura…
Bene, immaginiamo.
Immaginiamo che si riuniscano cento persone, la gran parte saranno consiglieri regionali e presidenti di regione – e, al netto della caricatura che Maurizio Crozza fa di Vincenzo De Luca, non si tratterà precisamente di pesi piuma nella disputa politica – più alcuni sindaci (e immagino saranno sindaci di grido), più gli eventuali cinque nominati per sette anni dal Quirinale, più gli ex presidenti della Repubblica, più i senatori a vita. Bene, questi si insediano e il loro primo interrogativo verterà su quanto valga il loro lavoro: una corrente di opinione certamente dirà “voi non contate nulla, perché non vi ha eletto il popolo e la sorte del Governo non dipende da voi”. E’ possibile che queste cento persone stiano al gioco e diventino un puro orpello, un’assemblea di nessun valore e si rassegnino a questa marginalità. Più verosimilmente, cercheranno di riconquistarsi una centralità: il modo più semplice per farlo sarà prendere a pugni l’altra Camera, di richiamare ogni legge, di contestare ogni provvedimento preso a Montecitorio e di dimostrare in corso d’opera che quell’assemblea ha un senso, che quelle riunioni hanno un valore perché modificano le leggi, facendolo inevitabilmente attraverso un rapporto conflittuale che si verrà a instaurare con la Camera.
Un conflitto che, secondo alcuni, potrebbe esplodere in caso di procedimento bicamerale, visto che il nuovo Senato potrebbe mettersi sempre di traverso e il governo non potrebbe nemmeno porre la fiducia…
Quello è uno dei tanti risvolti paradossali di questa riforma. Vede, io non penso che il tema fondamentale di questo paese sia fare più leggi e farle più in fretta. Facciamo molte più leggi di quante se ne approvino nei parlamenti dei paesi europei che ci somigliano e facciamo leggi complicate: semmai avremmo il problema di fare meno leggi e scriverle meglio. Anche ammesso che questa sia la priorità, però, noi ci troveremo a scoprire in corso d’opera che il processo che conduce verso queste leggi è molto più complicato e conflittuale nel nuovo ordine di quanto non sia nell’ordine che ci apprestiamo ad archiviare. Ammesso, naturalmente, che gli elettori decidano così.
Se, invece che guardare al sistema austriaco, si fosse adottata la soluzione tedesca del Bundesrat, con una seconda Camera comunque non elettiva ma con i rappresentanti degli esecutivi regionali, qualcuno avrebbe parlato comunque di deriva autoritaria? Era così improponibile?
Non era affatto improponibile, ma credo che richiedesse due passaggi preliminari. Innanzitutto si doveva stabilire che non dovevano più esistere regioni a statuto speciale, per cui il regime statutario doveva essere lo stesso, dal Friuli – Venezia Giulia alla Sicilia, passando per la Lombardia e il Lazio. Secondariamente, occorreva superare la Conferenza Stato-Regioni, problema che si pone anche ora: noi avremo lì un doppione, per cui o lavora all’unisono e riverbera al suo interno le stesse dinamiche che vedremo al Senato (e tra Senato e Camera) o sarà comunque un elemento di disturbo nel procedimento legislativo e rispetto alla funzionalità del rapporto tra Stato e Regioni. Il senso del Bundesrat è che lì manca sia un organo come la Conferenza Stato-Regioni, sia l’istituto dell’autonomia differenziata, non essendo questi particolari di poco conto. Vede, qui si è fatta una riforma con elementi di occasionalità: per intendersi, è evidente che il voto degli altoatesini al Senato è stato cruciale per approvare la riforma, non è che si potesse pensare di avere il voto della Svp attentando a una serie di prerogative, diritti, consuetudini…
Beh, anche il voto dei siciliani, vista la storia della Sicilia…
Sì, ma i siciliani in questo senso erano molto di più nel “frullatore” della politica nazionale; gli altoatesini invece si sono sempre posti come una sorta di lobby territoriale molto coriacea, con cui tutti i governi degli ultimi anni (e forse anche prima) hanno dovuto fare i conti. Tutto bene, ma questo getta un’ombra sulla linearità di questa riforma, che appare molto pasticciata: se si doveva operare per compromessi, si poteva trovare la strada di un compromesso più ragionevole, secondo me: se si doveva operare secondo l’etica rigorosa della convinzione, forse il governo avrebbe dovuto essere più nitido nel mettere in campo una sua idea, che invece appare molto segnata dall’occasionalità.
Quanto ai poteri del governo, il fronte del “sì” è convinto che non cambi nulla perché – e in effetti è così – non si toccano le norme costituzionali in materia; i sostenitori del “no” dicono invece che il governo si rafforza, per congegni come il “voto a data certa” e per l’azione combinata – non “combinato disposto”, giuridicamente è una sciocchezza – del nuovo sistema bicamerale e dell’Italicum, se resterà tale. Lei che pensa?
Dipende dalla legge elettorale: il combinato disposto – anche se l’espressione non le piace – è in agguato. Il sottinteso è che si vuole dare al governo una maggiore capacità decisionale: è tecnicamente vero che non si modificano le attribuzioni del governo, ma è altrettanto evidente che si crea un contesto in cui il governo dovrebbe avere questa potestà ulteriore. Io insisto: cercando di leggere la riforma con gli occhiali del governo, dunque assecondando quella preoccupazione – che non è la mia, ma la capisco – trovo che si sia imboccata una strada che non porterà a quel risultato. Io penso che la riforma, se sarà approvata, si rivelerà una delusione per quelli che l’hanno voluta, perché non contiene l’esito di un rafforzamento così significativo per il potere del governo. Anche perché il terreno su cui si gioca la partita dei governi che verranno – dobbiamo immaginare un testo che duri per qualche decennio – non è fatto solo di regole costituzionali, ma anche di politiche, di scelte di quotidianità, ed è lì che “si parrà la nobilitate”…
Un altro punto su cui “si parrà la nobilitate” riguarda il riparto di poteri normativi tra Stato e Regioni, con l’abolizione formale della competenza concorrente (ma non in materia elettorale) e la contemporanea introduzione di formule che, nel riparto di competenze, per alcuni giuristi sembrano ricreare la dicotomia norme di principio / norme di dettaglio. Secondo lei il nuovo testo funzionerà o si rischia che la Consulta debba impiegare altri anni per risolvere nuovi dubbi?
Mah, su questo sono meno severo: tra i pochi punti che riconosco positivi di questo impianto c’è il mettere un certo ordine nel rapporto tra Stato e Regioni. Certo, pesa l’eccezione delle Regioni a statuto speciale, la sovrapposizione della Conferenza Stato-Regioni…
… che continua a non essere prevista in Costituzione…
Non è prevista in Costituzione, ma nella realtà c’è. Pesa poi anche il fatto che nella nostra abitudine politica le Regioni sono diventate un centro di potere che non è così facile smantellare: torno sempre a De Luca, ma il suo affacciarsi sulla ribalta della campagna elettorale nel modo visto in questi giorni colpisce, significa che ci sono governatori che si sentono molto impegnati nel promuovere questo risultato. Al di là di queste e di altre obiezioni che si possono fare, però, io trovo che un riequilibrio dei poteri tra Stato e Regioni che serva a riaffermare una clausola – come si è sempre detto – di supremazia dello Stato, fa parte di una saggezza che in questo caso mi sento di condividere. Anche qui, poi, l’operatività non è sempre così lineare e fedele al principio, ma il principio è giusto.
Sul piano degli istituti di partecipazione dei cittadini (referendum e proposte di legge di iniziativa popolare), secondo lei, si è agito correttamente o si poteva operare meglio?
Non mi sembra il tema cruciale. Se si fa una riforma, bisogna liberarsi dei luoghi comuni: io non credo che il tema del cambiamento sia di per sé espressione di una virtù, ci sono cambiamenti che migliorano una situazione e altri che non la migliorano, dobbiamo liberarci di questa filosofia per cui ogni novità è di per sé un merito. Che alcuni degli aggiustamenti, come quelli di cui parlava lei, aiutino, sono pronto a riconoscerlo: credo non aiuti il non aver tentato un approccio a tutta la materia che individuasse correttamente le priorità. La priorità del paese non è il procedimento legislativo, non è la velocità con cui il Parlamento controfirma le leggi prospettate dal governo, ma è il sistema della rappresentanza: occorre rendersi conto – e qui torno alla legge elettorale, al “combinato disposto” – che il tema fondamentale è come i cittadini possono riconoscersi in istituzioni che non appartengono più loro non perché sono datate o non sono state modificate a sufficienza, ma perché il fossato che divide quelle istituzioni da quella cittadinanza si è allargato a dismisura. Abbiamo una macchina politica tutta intera, fatta di istituzioni, protagonisti e luoghi in cui loro si affrontano, che non ha più corrispondenza con la vita dei cittadini. Se mettiamo all’ordine del giorno questo tema e lo svolgiamo, forse la riforma può servire; se invece aggiriamo questo tema, pensando che la velocità ci metta nella condizione felice e miracolosa di bypassare tutti i nostri problemi, scopriremo che i problemi sono rimasti tali quali e prima o poi ci prenderanno d’assedio.
Un esempio?
Ne faccio uno fin troppo ovvio: l’attuazione e forse anche la revisione dell’articolo 49 della Costituzione, che dovrebbe regolamentare la vita dei partiti, sarebbe cruciale in questo senso.
In effetti quella disposizione fu scritta, oltre che da personaggi di altissima levatura, avendo in mente partiti completamente diversi da quelli di oggi, come forma, struttura, numero di iscritti…
A maggior ragione serve attuare la disposizione. Vede, nell’Italia di prima i meccanismi di democraticità interna dei partiti potevano essere imprecisi, ma trovavano inevitabilmente un riscontro in un livello di partecipazione tale per cui l’imprecisione aveva i suoi limiti, ma non poteva andare oltre un certo segno. Ora invece domina l’arbitrarietà.
E’ per questo, secondo lei, che si cerca di regolare in via legislativa i partiti, tentando di chiudere la stalla anche se i buoi sono scappati? E’ troppo tardi o meglio tardi che mai?
Eh, ma appunto si chiude una stalla vuota, forse non serve nemmeno chiuderla. Meglio tardi che mai, per carità, va tutto bene e tutto fa brodo, ma qual è la visione sistemica dietro la riforma? Io penso che una visione corretta sia la lettura del paese e della sua rappresentanza che dà un ruolo importante ai corpi intermedi, di cui i partiti sono un esempio ma non l’unico, forse oggi non il più importante. Ora, prendendo spunto da questa lettura del paese, avremmo potuto imboccare un percorso virtuoso; se invece si vede tutto questo come un fardello di cui liberarsi, sacrificando ogni problema sull’altare della velocità, il mantra che governa e muove tutto, si inanellano da lì in avanti tanti errori che sono conseguenza di un errore che sta nella matrice.
A proposito di mantra, in queste settimane da varie parti dello schieramento del “sì” si sente ripetere spesso che la riforma, pur perfetta, “è meglio che niente”, magari aggiungendo subito dopo che “non dovesse funzionare, ci rimetteremo le mani”. Sono giuste queste parole o le fanno un po’ ribrezzo?
Non posso dire che mi fanno ribrezzo, dico che mi sconfortano. Se penso alle decisioni cui ho partecipato o che mi è capitato di sottoscrivere in passato, tornando indietro non poche le contrasterei con più forza. Pensi a un “dettaglio”, che poi tanto dettaglio rischia di non essere: il voto agli italiani all’estero.
Cosa accadde quella volta?
Siamo stati presi tutti da una ventata di demagogia inspiegabile, ingiustificabile. Abbiamo detto tutti: “Vabbè, lasciamo correre, il povero Tremaglia insiste tanto, diamogliela vinta” e abbiamo conferito il diritto di decidere dei nostri destini a una grande quantità di persone che in gran parte non hanno più alcun coinvolgimento con il nostro paese. E’ stata una scelta sentimentale? Può darsi, ma possiamo dire dopo ormai quindici anni che è stata una decisione insensata? Basta confrontare il diritto di voto che noi concediamo agli italiani all’estero con analoghi diritti – molto più parsimoniosi – concessi da altri sistemi politici a “concittadini” che stanno fuori dai loro confini.
Come si applica quel precedente al caso di oggi?
L’ho detto perché a volte si prendono decisioni con leggerezza, senza rendersi conto delle conseguenze. Stiamo ragionando di un testo che non deve dirci se il governo Renzi gode o meno di un consenso largo: deve interrogarci su cosa sarà dei governi e dei parlamenti italiani di qui a dieci, venti, trent’anni o più. Occorre uno spirito diverso, più lungimirante: non si deve pensare all’impatto immediato, ma a quanto le riforme servano al Paese immaginando una fotografia in movimento. L’adesione al quieto vivere ci ha portati nel tempo a prendere decisioni di cui magari non eravamo convinti e che si sono rivelate sbagliate: quando si parla di Costituzione forse l’asticella da saltare è più alta e bisogna capire che quello che ha valore dovrà averlo anche di qui a venti o trent’anni. Se adottiamo questo sguardo, probabilmente ci rendiamo conto che il “meglio che niente” non dura venti o trent’anni.
Lei parlava di decisioni che ha preso o avallato: cosa risponde a chi dice che questa riforma costituzionale è simile a quella promossa dal centrodestra di cui lei era parte nella XIV legislatura?
I testi sono diversi, ma la somiglianza è nel sottotesto, le guida la stessa filosofia. Che, da un lato, ritiene che il problema politico italiano sia la lentezza e, dall’altro, scommette sul fatto che la velocità del processo decisionale possa essere risolutiva. Non mi convince né l’una né l’altra cosa: forse starò diventando vecchio, ma tutta questa frenesia di correre senza sapere la rotta, senza immaginare quale possa essere la destinazione più lontana ci abbia resi inutilmente frenetici.
Tornando ai mantra, il fronte del “sì” invita a discutere sul merito della riforma, poi però vari esponenti di quello schieramento aggiungono “se vince il no, il futuro non è Berlusconi, ma Grillo” (o, in casa Pd, si dice “non vinceremo mai più”). Se si resta sul merito, non si dovrebbe evitare di paventare questo o quell’esito politico?
Condivido, poi è una tentazione cui ognuno di noi soggiace, dunque anch’io mi interrogo sulle conseguenze strettamente politiche del voto del 4 dicembre.
Lei che idea si è fatto?
Eh, lei mi trascina su un terreno su cui abbiamo appena detto che è bene non avventurarsi…
Sì, ma dicevo che è bene non decidere pensando alle conseguenze politiche, non che interrogarsi sia un male…
Guardi, la mia idea è questa ed è il contrario di ciò che si dice di norma. Renzi non è l’argine contro il populismo, credo che sia la strada più veloce verso il populismo: avendo scelto di fare suoi gli argomenti della concorrenza, li ha paradossalmente avvalorati. Se il tema è dare addosso alla casta, ridurre la politica ai minimi termini, disboscare una giungla di poltrone, carriere sempiterne, nefandezze pubbliche di ogni tipo… Grillo sarà sempre davanti a tutti i noi per quanto si cerchi di imitarlo, è la solita storia dell’originale e della fotocopia. In un paese così di malumore, che non si dissolverebbe nella celebrazione del trionfo renziano, io temo che il giorno dopo la vittoria del “sì” ci renderemmo conto che quel malumore non si è scaricato come un temporale, ma troverà altre strade per esprimersi. Credo che Grillo farebbe meno fatica a vincere le politiche con la vittoria del “sì”, piuttosto che dopo una vittoria del “no”: qui mi fermo, per non rischiare di scivolare.
Ha iniziato dicendo “no alla riforma, perché è divisiva”. Ora, lei stesso ha ricordato che certi periodi della storia d’Italia sono stati decisamente peggiori, ma non è improbabile che il 5 dicembre l’Italia, a prescindere dall’esito delle urne, sia profondamente spaccata in due. Come può ripartire il paese?
Io interpreto il “no” anche come un “no” alla divisione, come un invito a riposizionarci tutti su una linea che renda possibile il compromesso. Se si taglia il cortocircuito che oggi tiene insieme destino del governo e sorte della riforma, forse siamo ancora in tempo per immaginare due percorsi paralleli che non debbano intersecarsi a vicenda.
Eppure chi sostiene questa riforma è convinto che, in caso di vittoria del “no”, dopo non ci sarà nessuna riforma, per lo meno con l’appoggio di chi voleva questa. Quella parte come si potrebbe recuperare, se risultasse sconfitta alle urne?
Il recupero di cui parla dovrà comunque essere tentato e credo che aiuterebbe almeno a ottenere a svolgere un finale di campagna referendaria un po’ meno triviale di quello cui più o meno tutti stiamo dedicando le nostre migliori energie. Sta alla saggezza della politica trovare percorsi, ma il fatto che un percorso certamente divisivo venga interrotto dovrebbe spingere questa saggezza verso la ricerca di intese più larghe. Certo, se il giorno dopo si immagina una resa dei conti, il terreno è quello meno propizio per coltivare qualcosa. Del resto, insisto, il fronte del “no” è talmente variegato, anche come idea istituzionale che ciascuna componente ha, che il terreno di discussione è amplissimo, senza strade segnate: si tratta di capire se siamo interessati a una sorta di esame collettivo di coscienza su ciò che serve al paese. Occorre però trovare luoghi in cui maturi un pensiero non così strettamente legato all’attualità e alle convenienze che stanno in quel perimetro: se non si vuole fare l’Assemblea costituente troviamo un’altra formula, una convenzione, un altro luogo in cui le intelligenze costituzionali possono misurarsi. Cosa impedisce di fare questo? Forse soprattutto il legame che si è creato tra la disputa politica quotidiana e l’ordine costituzionale: o noi torniamo a separare questi due argomenti, o il problema non troverà mai soluzione.
In chiusura: Follini, le manca la politica attiva o ne è felicemente lontano?
Guardi, non so quanto ne sono lontano, lo vedo anche nelle mie curiosità quotidiane: leggendo i giornali, la prima cosa che leggo è la nota di Folli o di Sorgi. Sono ammalato di politica come sempre e non intendo neanche liberarmene. Mi è chiaro che una stagione si è chiusa: non mi candiderò mai più, non avrò più un ruolo come quello che ho cercato di svolgere prima, ma resto legato a queste vicende, me ne interesso. La stagione dell’impegno istituzionale è inevitabilmente chiusa, quella della militanza non si chiuderà mai.
E non c’è bisogno di una tessera per militare…
Può esserci o non esserci: non è una condicio sine qua non.