Domenica 4 dicembre circa 51 milioni di elettori (di cui 3,5 residenti all’estero) saranno chiamati a votare per approvare o respingere in blocco la riforma costituzionale proposta dal governo Renzi e varata dal Parlamento in doppia lettura. Il referendum popolare su una legge di revisione costituzionale è previsto (ma non obbligatorio) dall’articolo 138 della Costituzione e rispetto a quello abrogativo non ha un quorum: quindi, qualunque sia l’affluenza alle urne, l’esito del voto sarà valido. Gli elettori dovranno scegliere tra un “Sì” se vogliono che la riforma costituzionale passi o un “No” se vogliono respingerla. Il disegno di legge che prende il nome dalla sua promotrice, Maria Elena Boschi, prevede la modifica di 47 articoli della Costituzione repubblicana approvata dall’Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947 ed entrata in vigore a partire dal 1° gennaio 1948.
L’articolo 138 che fa della nostra Costituzione un testo “rigido” (ovvero modificabile solo con ampie maggioranze e attraverso un iter più lungo delle leggi ordinarie) prevede la possibilità di un referendum popolare sulle leggi di revisione costituzionale nel caso in cui esso venga richiesto (entro tre mesi dalla pubblicazione su Gazzetta Ufficiale) da un quinto dei deputati o senatori, o da cinquecentomila elettori o da cinque Consigli Regionali. Inoltre, il referendum non si tiene se in seconda lettura ciascuna delle due Camere approva la legge con una maggioranza qualificata (2/3 dei componenti). Non è stato questo il caso perché, anche per espressa volontà del governo, in seconda lettura non è stata raggiunta la maggioranza qualificata al Senato dove i voti favorevoli sono stati 178 su 315 (56%). Il referendum del 4 dicembre si sarebbe tenuto lo stesso su richiesta di deputati e senatori ma i due Comitati del “Sì” e del “No” hanno comunque preferito raccogliere le 500mila firme necessarie così da incassare 500mila euro (uno per ogni firma) per finanziare la campagna referendaria, come previsto dalla legge 157 del 1999. Il fronte del “Sì” ha presentato alla Cassazione tra le 560 e le 580 mila firme, mentre il “No” non è riuscito a raggiungere la soglia necessaria raccogliendone circa 300mila.
Il quesito
Domenica prossima i cittadini dovranno esprimersi su un quesito ben preciso che riporta il titolo della legge approvata dal Parlamento. “Approvate il testo della legge costituzionale concernente ‘disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione’, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?”.
La riforma costituzionale su cui gli italiani saranno chiamati a esprimersi domenica prossima è la 17° della storia Repubblicana e modifica più di un terzo dell’attuale testo. Gli articoli oggetto di revisione sono 47 e non riguardano la prima parte della Costituzione – dall’articolo 1 al 54 – sui principi fondamentali della Repubblica. La riforma Boschi, al netto delle valutazioni di merito, può essere considerata “storica” in quanto si propone di approvare una revisione parziale della Costituzione dopo 33 anni di discussioni e tentativi andati a vuoto. La prima commissione bicamerale fu la Bozzi del 1983, passando per la De Mita-Iotti di dieci anni dopo (1993-1994) e la D’Alema del 1997, fino alle riforme costituzionali del 2001 e del 2006, quest’ultima approvata dal terzo governo Berlusconi ma bocciata dagli elettori.
La riforma costituzionale si può dividere in tre grandi temi: a) il superamento del bicameralismo paritario e il nuovo Senato, b) la riforma del Titolo V e l’abolizione di Cnel e Province, c) le nuove prerogative del governo, l’elezione del Capo dello Stato e la nuova normativa in materia di referendum.
Il nuovo Senato delle autonomie
La riforma costituzionale va a modificare sia la composizione che le funzioni del Senato. Per quanto riguarda la composizione, rispetto ai 315 senatori attuali eletti dai cittadini, la seconda Camera sarà composta da 100 membri: 74 consiglieri regionali, 21 sindaci e 5 senatori nominati dal Presidente della Repubblica per “altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario” (i vecchi senatori a vita che però rimarranno in carica solo 7 anni). I nuovi senatori non saranno più eletti direttamente dai cittadini – per capirsi: agli elettori non sarà più consegnata la scheda per il Senato – ma indirettamente “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i consiglieri regionali”. Che, tradotto, vuol dire: se la riforma dovesse passare, il Parlamento dovrà approvare una legge per far scegliere ai cittadini quali consiglieri regionali mandare al Senato in occasione delle elezioni regionali. Ogni Consiglio quindi manderà al Senato un sindaco – non per forza del Comune capoluogo – e uno o più consiglieri in proporzione alla popolazione di ogni Regione. Per fare degli esempi: la regione con più senatori sarà la Lombardia (14), seguita da Campania (9) e Lazio (8). L’Assemblea non sarà mai sciolta perché il mandato di ogni senatore decade insieme a quello del Consiglio Regionale che lo ha eletto. Per i nuovi senatori rimane l’immunità parlamentare (ma non per i reati commessi fuori dal loro esercizio a Palazzo Madama) e non prenderanno alcuna indennità per il nuovo lavoro a Roma.
Quello delle funzioni del nuovo Senato è il punto centrale della riforma. Viene superato il bicameralismo paritario vigente fino ad oggi secondo cui entrambe le Camere hanno gli stessi poteri: devono dare la fiducia al governo e approvare le leggi in maniera identica. Con la nuova Costituzione, Camera e Senato non avranno più le stesse funzioni, anche in ragione della diversa composizione. Il Senato non avrà più un rapporto fiduciario con il governo e dovrà rappresentare le istituzioni territoriali facendo da raccordo tra Stato, Regioni, Comuni e tra questi e l’Unione Europea. Oltre alla funzione legislativa, solo Montecitorio eserciterà le funzioni di indirizzo politico e di controllo sull’operato dell’escutivo. Ma la modifica più importante riguarderà la funzione legislativa. Viene superata la tradizionale “navetta” tra Camera e Senato e sono previsti almeno 4 nuovi procedimenti legislativi (ma alcuni giuristi parlano di molti di più):
1) sistema bicamerale: riguarderà le leggi costituzionali, quelle su referendum, minoranze linguistiche, trattati Ue, enti locali, leggi elettorali, insindacabilità e ineleggibilità.
2) sistema monocamerale partecipato: il testo di legge approvato dalla Camera può essere discusso dal Senato e modificato entro 30 giorni ma la Camera può decidere di accogliere o ignorare le richieste di modifica.
3) sistema monocamerale di bilancio: le leggi di stabilità vengono discusse dal Senato e presentare le proprie modifiche alla Camera che ha comunque l’ultima parola.
4) sistema monocamerale rinforzato: per le leggi riguardanti le competenze delle Regioni, se il Senato si esprime a maggioranza assoluta, la Camera potrà respingere le proposte di modifica solo a maggioranza assoluta.
La riforma del Titolo V
Il ddl Boschi, sul Titolo V della Costituzione che regola i rapporti tra lo Stato e le autonomie territoriali, va nel senso opposto rispetto alla riforma del centrosinistra del 2001 che decentrava il potere statale affidandolo anche alle Regioni attraverso la competenza concorrente. L’obiettivo dei nuovi costituenti è quello di ritornare ad una centralizzazione del potere evitando tutti i contenziosi tra Stato e Regioni che negli ultimi anni hanno intasato i lavori della Corte Costituzionale. Per questo, vengono completamente abolite le materie concorrenti e lo Stato riacquista la potestà legislativa su molti temi come la sicurezza sul lavoro, la produzione e il trasporto dell’energia o la tutela dei beni culturali. Inoltre viene introdotta la cosiddetta “clausola di supremazia” à la tedesca per cui lo Stato centrale, con legge apposita, potrà intervenire anche sulle materie esclusive delle Regioni se lo richiede “la tutela dell’interesse nazionale”.
La parola “province” viene abolita dalla Costituzione (dopo l’approvazione della legge Delrio) e viene inserito un tetto agli stipendi di governatori e consiglieri regionali che non possono superare quello del Sindaco del Comune capoluogo. La riforma riguarda – tranne che per la nomina dei senatori – solo le Regioni a Statuto ordinario.
Decreti, elezione Capo dello Stato e referendum
L’ultima parte riguarda modifiche minori ma non meno importanti.
Il Consiglio Nazione dell’Economia e del Lavoro (CNEL) viene abolito.
Inoltre la riforma va a toccare alcune prerogative dell’esecutivo che avrà una sorta di “corsia preferenziale” per le leggi che ritiene fondamentali così da farle approvare da Camera e Senato entro e non oltre 105 giorni (proroghe comprese). Inoltre vengono inseriti in Costituzione i requisiti oggi previsti dalla legge ordinaria per la presentazione e l’approvazione dei decreti legge.
Cambia l’elezione del Capo dello Stato: rispetto ai 1008 grandi elettori attuali si riuniranno in seduta comune 730 parlamentari e, per eleggere il nuovo Presidente, serviranno i due terzi degli aventi diritto nei primi tre scrutini (come oggi), mentre dal quarto i tre quinti (oggi è la maggioranza assoluta) e dal settimo sempre i tre quinti ma dei votanti.
Infine, oltre al referendum abrogativo, viene aggiunto quello propositivo e di indirizzo. Dall’altra parte, per presentare una legge di iniziativa popolare serviranno 150mila firme invece che le 50mila attuali ma a quel punto il Parlamento dovrà approvarla in tempi certi. Una modifica riguarda anche il referendum abrogativo per cui se vengono raccolte 800mila firme invece che 500mila, il quorum si abbassa alla “maggioranza dei votanti” delle ultime politiche.
I due fronti
La campagna referendaria che si concluderà venerdì con gli ultimi comizi è stata tra le più lunghe ed estenuanti degli ultimi anni. Dal punto di vista parlamentare, entrambi i fronti sono piuttosto variegati: per il “Sì” sono il PD, ALA, UDC, NCD e IDV mentre il fronte del “No” comprende M5S, Lega, FI, SI e la minoranza dem. Il ddl Boschi ha anche diviso costituzionalisti e giuristi che da decenni discutono (e si scontrano) sul tema delle riforme costituzionali. Termometro Politico ha chiesto a due dei principali esponenti di entrambi i fronti un parere generale sulla riforma.
“I cittadini dovrebbero votare sì per fare punto e a capo, e provare a ripartire sul terreno delle riforme – spiega Carlo Fusaro, docente di Diritto Pubblico all’Università di Firenze –. La riforma ci darebbe istituzioni un po’ più efficienti e funzionali, un po’ più snelle, semplici e meno costose e sarebbe strumentale a continuare a cambiare un paese che ancora due anni fa era letteralmente in catalessi. Del resto se ne parla da decenni”. E a chi dice che se vince il “No” non si parlerà più di riforme costituzionali per anni, Fusaro risponde così: “se non si fanno oggi si faranno domani, ma il problema è che non è detto si facciano meglio e nessuno può dire quando: le altre volte dopo ogni fallimento son passati dieci anni e non credo proprio che ce lo possiamo permettere. Del resto dove la ritroviamo una classe politica disposta a tagliarsi di un buon terzo?”.
Sulla sponda del “No” si è schierato invece Saulle Panizza, docente di Diritto Costituzionale all’Università di Pisa. Le sue critiche riguardano sia il metodo che il merito della riforma costituzionale. “Si tratta di una revisione costituzionale imponente, approvata da un Parlamento frutto di una legge elettorale dichiarata incostituzionale, promossa e sostenuta principalmente dal Governo e dalla sua maggioranza, non senza forzature dal punto di vista procedurale” spiega a Termometro Politico. “Nel merito – continua Panizza – è una riforma mal scritta, con evidenti incongruenze (a partire da quella tra il titolo della legge di revisione costituzionale e i suoi contenuti), che richiederà, se approvata, un lungo e faticoso lavoro di attuazione e produrrà un sistema più sbilanciato a favore dell’Esecutivo”.
Referendum, scenari e previsioni
Se domenica prossima dovesse vincere il “Sì”, inizierebbe il lungo processo di attuazione della riforma costituzionale che si concluderà solo con lo scioglimento e con la conseguente formazione del nuovo Parlamento dopo le elezioni politiche. Dall’altra parte, in caso di vittoria del “No”, rimarrà in vigore la Costituzione Repubblicana del 1948. Dal punto di vista politico, invece, gli scenari sono più simili di quanto si possa pensare: secondo molti retroscena degli ultimi giorni, che vincano i “Sì” o i “No”, si dovrebbe andare a votare nella primavera del 2017. In caso di vittoria del “Sì”, infatti, Renzi avrebbe la possibilità di sfruttare tutto il suo capitale politico rassegnando le dimissioni al Capo dello Stato chiedendogli di sciogliere le Camere. Con il “No”, invece, il Presidente del Consiglio si dimetterà e Mattarella potrebbe incaricare un esecutivo tecnico guidato da Pier Carlo Padoan o Piero Grasso per approvare rapidamente una nuova legge elettorale (l’Italicum vale solo per la Camera) e andare al voto in primavera.
Gli ultimi sondaggi disponibili prima del silenzio elettorale indicavano un netto vantaggio del fronte del “No” (media intorno ai 6-7 punti percentuali) ma con una forbice di indecisi oscillante tra il 10 e il 25%. Il voto di questi ultimi sarà decisivo: se vuole superare il fronte opposto, il “Sì” avrà bisogno del voto di quasi tutti gli indecisi. L’affluenza dovrebbe attestarsi intorno al 60%. Per vincere, servono 15 milioni di voti. Da una parte e dall’altra.
Giacomo Salvini
Twitter @salvini_giacomo