La questione dei voucher impazza, ma come stanno effettivamente le cose?
La prossima primavera saremo forse chiamati al voto.
No, non parliamo di quello politico, per elezioni anticipate, che è ancora in dubbio, ma di quello per il referendum su articolo 18, voucher e subappalti, che dovrebbe avere luogo a meno che, appunto, non si voti per Camera e Senato.
Il tema che più trova spazio sui media e nel dibattito pubblico è quello dei voucher.
Più o meno ogni mese viene lanciato l’allarme sull’aumento del suo utilizzo, che almeno a ottobre 2016 è arrivato a quota 121.506.894 per i primi 10 mesi dell’anno.
Come sappiamo ogni voucher può essere utilizzato per un’ora e vale 10€, di cui 1,30€ va all’INPS all’interno della gestione separata, 0,70€ va all’INAIL, e 0,50€ sono un contributo per la gestione del servizio. Di fatto al lavoratore vanno 7,50€
Ma come è nato questo strumento?
Voucher, nascono con il governo Prodi, la liberalizzazione completa con Letta, i primi limiti con Renzi
La storia dei voucher inizia con il secondo governo Prodi, dal 2008 vengono applicati solo all’agricoltura, sulla base della definizione di lavoro saltuario e stagionale già fatta nella legge Biagi del 2003.
Si trattava di garantire un minimo di contribuzione e di copertura assicurativa per esempio ai tanti che lavoravano in nero alla vendemmia.
Sotto il governo Berlusconi, tra il 2008 e il 2011 c’è stata man mano un’estensione. Si pensava al settore del lavoro domestico, al giardinaggio, alle babysitter, a tutti i settori in cui il nero impazza.
Una svolta avvenne con il governo Monti che liberalizzò l’utilizzo fino a un limite di 5 mila€ annui per un singolo lavoratore e 2000€ per un azienda o professionista.
Si trattava di un intervento nel quadro delle agevolazioni per coloro che con la recessione sarebbero divenuti disoccupati, perchè potessero in parte alleviare la situazione di disagio. Un’altra misura analoga era stata l’introduzione dell’IRPEF al 5% per le partite IVA ai minimi i primi 5 anni.
La liberalizzazione definitiva è avvenuta con il ministro del lavoro Giovannini durante il governo Letta, nel 2013, quando fu cancellata la disposizione che si trattasse di lavori di natura meramente occasionale.
Questo ha portato all’utilizzo nel commercio, nel facchinaggio, in moltissimi settori in cui il lavoro è fungibile e a basso valore aggiunto, ovvero può essere fatto da persone diverse che si sostituiscono senza avere una competenza specifica.
Con il Jobs Act del 2015 il massimale è stato esteso a 7 mila€ all’anno,pur rimanendo di 2000€ per azienda, però è stato vietato l’uso dei voucher negli appalti e, cosa più importante, questi da allora devono essere tracciabili, il datore di lavoro deve indicare, almeno 60 minuti prima dell’inizio della prestazione lavorativa, il luogo, il giorno e l’ora di inizio e di fine del lavoro. Questo per evitare che comprando un solo voucher senza orario si coprisse il lavoro nero di un’intera giornata.
Negli anni però l’utilizzo è cresciuto, quantitativamente e qualitativamente: si vede nell’età di chi viene pagato in voucher. Nel 2015 era aumentata, rispetto al 2011, la proporzione di 25-34 enni e di 35-49 enni, ovvero di persone in una fascia di età centrale in cui normalmente si dovrebbe svolgere un lavoro regolare e non accessorio. E’ crollata invece la proporzione di ultra-50enni e diminuita quella di giovanissimi.
Dai dati INPS del 2015 emerge anche che il 25% dei percettori di voucher ha già un contratto da dipendente, soprattutto part time, ma che viene pagato in voucher per le ore in più.
Metà dei voucheristi permane nella stessa situazione, ovvero di lavori pagati con questi buoni, per molti anni, mentre un’altra metà non riceve più di 29 voucher all’anno, per un totale netto di 217 euro.
Per quanto questi ultimi siano in una situazione di estrema povertà, simboleggiano il fatto che almeno in quel caso i voucher sono usati correttamente solo per lavoro occasionale.
Ma anche nel caso di coloro che sono già dipendenti o pensionati, si deve ragionare sull’alternativa al voucher, è più facile che quelle ore accessorie avrebbero portato a un’assunzione regolare o invece al nero?
Voucher, i numeri
Tra gennaio e ottobre 2016 secondo l’INPS sono stati usati, abbiamo visto, 121.506.894 voucher, con un aumento del 32,3% sullo stesso periodo del 2015, quando rispetto al 2014 il progresso era stato del 67,6%. L’incremento è piuttosto spalmato geograficamente, tranne che al Nordest, dove appare minore.
Chiaramente dal 2008 la crescita è stata esponenziale,
Il prospetto più interessante è quello però riguardante l’utilizzo di questi voucher, che è assolutamente frammentato. Si calcola che in media ogni lavoratore ha riscosso non più di 64 voucher.
In questo modo sembra evidente che si tratta nella grande maggioranza dei casi di lavoro effettivamente accessorio.
Sono da verificare due cose, se per esempio si tratta di un modo illegittimo di pagare degli straordinari o del lavoro che vada oltre il part time, come visto prima, o se si tratta di una foglia di fico per coprire la maggior parte delle ore fatte in nero, ma la tracciabilità introdotta con il Jobs Act serve proprio a questo.
Viceversa se vi fosse una sostituzione di lavoro a tempo indeterminato tutte quelle ore corrisponderebbero solo a 60-65 mila lavoratori, una quota decisamente bassa, di fatto meno dello 0,3% di tutti i lavoratori, che non giustifica il primo posto nel dibattito economico. Considerando che il 43% della popolazione attiva, milioni di persone, una occupazione non ce l’ha