Donald Trump: comincia il cambiamento o è solo propaganda?
La sistematica dismissione, promessa dal quarantacinquesimo presidente eletto degli Stati Uniti, a scapito della storica organizzazione liberista del commercio a stelle e strisce, non si è fatta attendere. La nuova amministrazione ha difatti messo fine, grazie all’avallo di un decreto esecutivo del 23 gennaio, al Trattato di libero scambio e mercato con l’Estremo Oriente (TPP). L’accordo, comprendente gli ammortamenti doganali e di esportazione, nonché l’implementazione di un listino tariffario vantaggioso per la circolazione delle merci tra USA, Giappone, Australia, Nuova Zelanda e Canada (soltanto per citare alcuni produttori importanti), tra le punte di diamante dei conseguimenti di Obama, non dovrebbe dunque poter più contare sulla partecipazione di Washington. Per la formalizzazione definitiva del diniego occorrerà, ad ogni modo, anche il placet del Congresso.
Donald Trump e libero scambio: una guerra senza frontiere
Diversamente da quelle che la nuova impostazione isolazionista americana sembra voler delineare al più presto, si pensi soltanto alle ultime paventate e stringenti norme di controllo dei flussi migratori dal Messico, sul versante economico, le frontiere della battaglia di Donald Trump contro il paradigma dello sviluppo liberoscambista non sembrano avere confini né limiti invalicabili. Le conseguenze per l’Europa sono tutte dietro l’angolo. Il TTIP, l’altro grande pilastro delle economie moderne che coinvolgerebbe la commercializzazione del manifatturiero del Vecchio continente per un totale del 40 per cento del Pil mondiale, potrebbe, infatti, essere la prossima grande vittima dell’odierno protezionismo industriale ed economico del presidente repubblicano.
Ieri vi è stato l’incontro tra le principali delegazioni aziendali per la produzione di automobili e i vertici della Casa Bianca. Ai capitani d’impresa Trump ha promesso vie facili per l’accesso al credito e una corsia preferenziale per le linee di lavorazione che decideranno di non delocalizzare l’indotto, scegliendo il suolo americano. Inoltre l’aliquota del 30 per cento sulla componentistica importata dagli Stati limitrofi dovrebbe avere definitivamente spianato la via alle nuove politiche economiche made in USA.
Donald Trump: cambiamento o propaganda?
Il tempo ci dirà fin dove la nuova amministrazione Trump deciderà di spingersi. Non sarà certo facile smantellare un sistema macroeconomico che ha fin qui garantito il surplus di bilancio e un tasso di occupazione media del 5 per cento. Il magma delle crescenti diseguaglianze patrimoniali ha in questi ultimi decenni impoverito la classe media e favorito la corsa del Tycoon, eppure l’economia statunitense difficilmente riuscirà a mantenere un livello di concorrenza accettabile per i propri mercati domestici affidandosi soltanto alla domanda interna.
La fine di un mercato comune, l’ipertrofico quanto inedito liberismo cinese, la potenziale svalutazione competitiva delle multinazionali e delle principali valute mondiali, rappresentano soltanto alcuni dei rischi all’orizzonte, per una futura America lontana dai giochi della globalizzazione.
Non secondario, infine, è il problema della credibilità istituzionale: le delicate scelte di natura economica e commerciale degli Stati Uniti tengono ancora insieme il filo di Arianna della finanza globale tramite la loro moneta e la loro forza politica. Recedere dagli accordi già presi potrebbe pertanto rivelarsi un pericoloso boomerang.