Cos’è il dumping sociale? Una delle catastrofi innescate dalla globalizzazione.
Le economie nazionali sono in competizione tra loro per attrarre gli investimenti internazionali. Il dumping sociale è la concorrenza sleale che, in questa competizione, i paesi emergenti esercitano nei confronti delle economie avanzate, attraverso leggi e normative nazionali che tutelano meno i propri lavoratori e che, quindi, abbattono i costi per le aziende.
Alla base di questo processo c’è la libertà di movimento del capitale internazionale. Le aziende muovono investimenti (e posti di lavoro) e attività produttive attraverso le frontiere alla ricerca condizioni più vantaggiose. I governi nazionali cercano in tutti i modi di rendere il proprio paese il più appetibile possibile, anche riducendo (o a mantenendo estremamente basse) le tutele dei propri lavoratori.
È una “lotta per il prodotto mondiale”, come l’ha definita l’ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt.
Il dumping sociale è “sleale” perché gioca con regole differenti: il capitale viaggia internazionalmente, mentre le normative sul lavoro restano nazionali. E la concorrenza si realizza sulle spalle dei lavoratori, sui loro salari e sui loro diritti. Salari e diritti che vengono sacrificati pur di attrarre investimenti internazionali e posti di lavoro. Una “corsa al ribasso” che sacrifica la dignità per (sperare di) mantenere il lavoro.
È una logica perversa che la sta facendo da padrona sia nel ricco Occidente sia nei paesi in via di sviluppo.
Nei primi, mantenere in vita quel patrimonio di diritti e tutele conquistato negli ultimi due secoli significa perdere competitività a livello internazionale. Le imprese che possono delocalizzano, e quelle che restano hanno il loro bel da fare a reggere alla concorrenza di chi produce pagando gli operai venti o trenta volte di meno.
Nei secondi, la totale dipendenza dagli investimenti stranieri costringe a stroncare sul nascere qualsiasi ipotesi di autentico sviluppo, di diffusione del benessere, di progresso sociale. La crescita economica folgorante è dopata dall’afflusso di capitali stranieri, rapidi a cogliere l’opportunità del profitto ma per nulla interessati a stimolare un sano processo di sviluppo locale.
Per quanto riguarda l’Occidente, la scelta è netta: o abbassiamo le nostre tutele e i nostri diritti, inseguendo la competitività al ribasso che ci impongono i paesi emergenti, o ci rassegniamo a veder sparire l’industria manifatturiera dai nostri paesi. Puntare sulle competenze, sulle eccellenze, sul “fare sistema” o stereotipi simili sarebbe solo un palliativo. Intendiamoci: va sicuramente fatto. Ma cosa faremo quando a livelli di eccellenza e a competenze di primo livello saranno arrivati anche operai, tecnici e ingegneri indiani, cinesi e – perché no – somali e congolesi? Molti di questi paesi investono più di noi in ricerca, istruzione e formazione avanzata, e le università asiatiche scalano ormai da tempo le classifiche dei migliori atenei del mondo.
Il dumping sociale è la faccia perversa della globalizzazione. L’esplosione dei tassi di disoccupazione, la stagnazione dei salari e il dirottamento degli investimenti verso le economie emergenti descrivono un quadro ben preciso: l’Occidente sta smettendo di produrre. Sta diventando una terra dove si consumano beni prodotti altrove. Le società occidentali si stanno spaccando in due: da un lato i pochissimi che traggono profitto da questa situazione, dall’altro la massa di coloro il cui stare bene, il cui benestare non è più necessario. La massa che deve semplicemente guadagnare quel minimo per poter consumare, e far continuare a girare la giostra. Il ceto medio, la conquista occidentale del Novecento, sta scomparendo.
I “perdenti” dell’attuale situazione non sono solo gli operai, i piccoli artigiani e le medie aziende. A rimetterci è l’intera società. Perché i salari che ristagnano, il lavoro che manca e le prospettive frustrate di un’intera generazione tolgono linfa vitale a tutto il sistema. La spina dorsale del sistema economico viene giù, se l’Occidente si deindustrializza. E un sistema in difficoltà, come abbiamo imparato in questi ultimi anni sulla nostra pelle, è facile preda della speculazione internazionale.
La speculazione attacca, il welfare è sotto accusa, i diritti retrocedono, l’economia reale ristagna e recede. Non è un affare che riguarda solo gli operai della Fiat o i piccoli imprenditori del Nord-Est. È tutta l’Italia, tutta l’Europa, tutto l’Occidente che rischia il collasso.
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