L’intricato scenario iracheno: non è (solo) una questione religiosa
(In collaborazione con Mediterranean Affairs)
Si combatte a 50 chilometri da Baghdad. L’ISIS (ad-Dawlat al-Islāmiyya fī’l-‘Irāq wa’sh-Shām), un gruppo jihadista takfiri, ha guadagnato terreno in poco tempo palesando l’inefficienza dell’esercito iracheno oltre che l’inettitudine di vari governi, occidentali e non, che hanno sottovalutato questa grossa minaccia alla stabilità e alla sicurezza. Questa lettura, diffusa sui media ma in realtà troppo semplicistica, non considera che la situazione è frutto di un effetto “domino” che ha coinvolto e coinvolge diversi attori regionali e internazionali.
La guerra in Afghanistan e soprattutto le guerre civili scoppiate nel Vicino Oriente e sulla sponda sud del Mediterraneo hanno scoperchiato un vaso di Pandora che ha portato caos in una fascia geografica che parte da Urumqi e termina nella “inespugnabile” Timbuctu.
Penultimo scenario di questo spettacolare effetto domino che ha fatto saltare la testa (talvolta letteralmente) a diversi capi di Stato, è quello siriano, dove l’ISIS ha cercato di accreditarsi tra le fila dei gruppi qaedisti ma con scarso successo, trovando fino allo scorso 4 maggio l’opposizione (anche armata) dell’unica sigla qaedista siriana, Al-Nusra, che in cambio del cessate il fuoco ha ottenuto la migrazione dell’esercito di Al-Baghdadi (il misterioso capo dell’ISIS) verso il nord dell’Iraq.
Usando una efficace strategia militare, l’ISIS è riuscita ad affermarsi militarmente in maniera rapida facendo affidamento su una variegata lista di alleati che comprende ex baathisti (i veterani dell’Esercito degli uomini dell’ordine di Naqshbandi) e gruppi jihadisti sunniti curdi (Ansar al-Islam) e cavalcando il generale malcontento presente nella regione a nord del Paese verso la mala-gestione politica ed economica del governo filo-sciita di Al-Maliki, sostenuto dall’improbabile duo Washington-Teheran.
Inutili le lamentele del Presidente iracheno che ha puntato il dito verso Qatar e Arabia Saudita accusandoli di aver finanziato e armato i gruppi jihadisti attivi in Siria ed Iraq: l’ISIS ha sicuramente cavalcato l’onda degli aiuti (neanche troppo segreti) degli americani e delle monarchie del golfo, ma sia gli Stati Uniti che i loro alleati mediorientali hanno da tempo “perso il boccino” del gioco.
Non era la nascita di un califfato in Medio Oriente quello che gli americani volevano inizialmente e l’Arabia Saudita (così come il Qatar) hanno dimostrato che potendo scegliere tra i cosiddetti fondamentalisti e più miti e obbedienti, seppur laicissimi, alleati, hanno scelto questi ultimi. Infatti, già da tempo i gruppi jihadisti hanno imparato a procurarsi da soli le armi e il denaro razziando tutto ciò che potevano e l’ISIS in particolare occupando la parte nord dell’Iraq si è appropriata di enormi quantità di denaro e oro che, secondo alcuni calcoli, consentirebbe all’organizzazione terroristica non solo di pagare i propri guerriglieri per circa un anno senza far ricorso ad ulteriori riserve di denaro, ma anche di diventare la più ricca organizzazione terroristica al mondo, rappresentando, così, una minaccia alla sicurezza di tutte le “nazioni infedeli” (cioè, potenzialmente tutte).
Questa enorme ricchezza ha attirato combattenti dalla maggior parte degli hot-spot mondiali, motivati anche da una possibile gestione del commercio petrolifero. È proprio su questa questione che probabilmente si giocherà la scelta di Washington di intervenire o meno nel conflitto. Per ora, 275 truppe americane sono dispiegate a Baghdad per la difesa del personale dell’Ambasciata USA; il Segretario di Stato, Kerry, ha fatto sapere che tutte le opzioni sono sul tavolo, anche eventuali colloqui con l’Iran (già presente sul territorio) per il coordinamento delle operazioni militari.
Nonostante queste valutazioni, l’occupazione dell’ISIS non porta solo svantaggi alla Casa Bianca. Questa situazione, infatti, se si protrarrà più del dovuto potrebbe mettere in discussione non solo la presidenza di Al-Maliki ma anche il giro di affari legato ai contratti petroliferi: ad oggi, la Cina compra la metà della produzione petrolifera irachena e investe moltissimo sull’industria estrattiva; questo scenario di caos sta rappresentando un enorme danno economico per Pechino e un’opportunità per Washington.
Come si può osservare da questa sintesi, la situazione è parecchio complessa e ricca di attori e di possibili scenari; sicuramente non si presta alle letture semplicistiche che riducono il tutto alla contrapposizione “sunniti-sciiti”, “Riad-Teheran”. Anzi, la fortissima varietà etnico-religiosa e i numerosi interessi politici in gioco non hanno tardato a “liquefare” ancora di più due Stati fondamentali della regione, Iraq e Siria. L’ISIS ha un chiaro obiettivo, esplicitato nel loro motto “Baqiya wa tatamaddad”, “durare ed espandersi”, e in questo scenario in continua evoluzione non resta che attendere la decisione di Washington e sperare in una tenuta delle truppe iraniane e di quelle irachene per impedire che l’ISIS si “espanda e duri” e porti ancora più instabilità nella regione.
Marcello Ciola
(Mediterranean Affairs – Editorial board)