Laura Boldrini su Facebook: vogliono la censura per poi chiamarla civiltà?
In una lettera inoltrata alla redazione de La Repubblica e prontamente edita dalla testata romana lo scorso lunedì, il Presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini si è rivolta all’Amministratore Delegato di Facebook Mark Zuckerberg, per mostrargli la propria preoccupazione riguardo una cattiva interpretazione del ruolo dei social network, a suo avviso potenziali catalizzatori dell’espressione più estrema della discriminazione.
Laura Boldrini su Facebook: vogliono la censura per poi chiamarla civiltà?
Senza mezzi termini, la terza più alta carica dello Stato si è scagliata contro la presunta violenza che sparute pagine di aggregazione su Fb contribuirebbero ad alimentare, pur assolvendo le piattaforme socio-informatiche da qualsiasi responsabilità diretta. “Signor Zuckerberg, come molti sono preoccupata per il dilagare dell’odio nel discorso pubblico. Fenomeno non generato certo dai social network, ma che in essi ha un veicolo di diffusione potenzialmente universale”: queste le battute iniziali della missiva della Boldrini, la cui sensibilità sembra chiedere asilo al buon senso del fondatore statunitense.
Le tesi accusatorie del Presidente si fondano su episodi di condivisione di contenuti multimediali su alcuni gruppi chiusi – il caso di Arianna Drago e dell’oscuramento di talune fanpage – e sulla presenza di spazi nei quali si concentra la professione di ideologie politiche (a suo dire) pericolose e deleterie per il pubblico della Rete. Segnalando, inoltre, la possibile nocività di notizie fasulle – le cosiddette fake news -, che vengono vitalizzate dalla viralità che solo internet riesce a garantire.
L’eco della Boldrini è stata accolta dalla senatrice Adele Gambaro – ex esponente del Movimento 5 Stelle, e oggi parlamentare di ALA -, che si avvale della sua denuncia per presentare un Disegno di Legge che metta a freno le intemperanze internaute, tramite il monitoraggio della condotta di chiunque navighi nel Web, sanzionandone eventuali trasgressioni. “Non è un bavaglio, ma una battaglia di civiltà”, ha commentato la Gambaro, rievocando proclami appartenuti proprio al Presidente della Camera sin dall’inizio del suo mandato.
Concretamente, la vicenda potrebbe essere inquadrata da molteplici punti di vista. Di certo, un eccessivo libertinaggio nell’utilizzo della Rete infetta la verità e la contamina a suon di informazioni farlocche e di malsana propaganda sociopolitica; contrariamente, però, una fitta tagliola giuridico-legislativa risulterebbe ancor più inappropriata, se si considerassero tutte le implicazioni che questa comporterebbe. La libertà d’espressione e di pensiero è una virtù basilare, ed ogni rappresentanza politico-istituzionale che si rispetti dovrebbe porla al centro del dibattito comune; ne consegue che questa venga preservata e rispettata, e non recintata e sterilizzata.
Il limite fra la provocazione e l’ingiuria non può essere messo in discussione, in quanto rappresenta il confine entro cui la satira agisce. I social media sarebbero addirittura fondamentali nella promozione del dialogo tra la pluralità di voci che si staglia nello sterminato oceano della Rete: potrebbero animare, moderare ed assortire la discussione sulle tematiche più varie. Sempre che venga delineato il principio di volontà: sostenere la loro causa – affrontando e smussando le criticità che questi portano in grembo -, oppure cedere alla tentazione di censurare qualsiasi cosa non vada a genio. Col rischio che un atteggiamento di proibizione intellettuale diventi nucleo di un’altra forma di regime: sottile ed impercettibile, in quanto apparentemente volta alla salvaguardia dell’integrità dell’opinione pubblica, che altresì viene limitata e (semmai) azzoppata, qualora infrangesse le regole di una morale pattuita a tavolino.
Inoltre, i punti di debolezza dei timori della Boldrini e del ragionamento legiferante della Gambaro si nascondono dietro un’incessante onda di ingorghi giudiziari che ciò potrebbe partorire. Già preda della sua medesima lentezza, la giustizia italiana si troverebbe a dirimere su vertenze che mancano di un vero precedente, e sulle quali l’interpretazione soggettiva risulterebbe determinante. Come giustamente ravvisato dall’avvocato Guido Scorza, Presidente dell’Istituto per le Politiche dell’Innovazione: “Chiunque ha avuto a che fare con l’informazione, sa che affianco al caso bianco e al caso nero, esiste anche il caso grigio, ossia qualcosa che è “realtà aumentata”, ossia né vera né falsa. Se due giudici si trovano a giudicare se una notizia è vera o falsa, nelle ipotesi di diffamazione, capita che arrivino a conclusioni diverse”. Prendendo a prestito le parole di Scorza, “preoccupa che un processo così complesso venga ridotto a un’automatizzazione”.
Alex Angelo D’Addio