Le ultime ore del Partito Democratico tra scissione minacciata e candidature ipotizzate
A quanti si siano persi le news democratiche delle ultime ore e a quanti, pur non essendosele perse, fanno fatica ad estricare le numerose fila tessute dal bombardamento mediatico focalizzato sull’Assemblea del Partito Democratico, si sottolinea che il condizionale rimane d’obbligo.
Un’unica certezza: Matteo Renzi si è dimesso da Segretario del Pd e Matteo Orfini, in qualità di Presidente, ha indetto il Congresso che si aprirà, ufficialmente, domani, martedì 21 febbraio, con la convocazione della Direzione del partito. In attesa dei candidati alla segreteria, che si sfideranno a primavera (la data non è ancora stata decisa, ma lo Statuto del Pd stabilisce, all’art. 5, c. 2, che “Quando ricorrano i casi di scioglimento anticipato dell’Assemblea – tra cui le dimissione del Segretario – il Presidente dell’Assemblea nazionale indice l’elezione entro i quattro mesi successivi”), le ipotesi di scissione e le voci sulle possibili candidature stanno animando il dibattito pubblico delle ultime ore.
Le ultime ore del Partito Democratico: Renzi e la minoranza dem
“È andata benissimo. Ora il congresso entro maggio e il voto a settembre”, dichiara Matteo Renzi dopo l’Assemblea. Ci sarebbe anche già una data per le primarie, commenta l’ex premier, che sarebbe individuata in domenica 7 maggio. Ma è all’apertura dei lavori che il segretario dimissionario dichiarava ciò che avrebbe condizionato tutto il seguito: “Non si può chiedere a una persona di non candidarsi perché solo questo evita la scissione. Avete il diritto di sconfiggerci, non di eliminarci”. E aggiungeva: “Peggio di scissione c’è solo la parola ricatto”. Ovviamente, tali frasi non sono piaciute alla minoranza dem.
Uscito dall’Assemblea, Pierluigi Bersani: “Sentite le conclusioni, i tre che hanno presentato altre proposte (Michele Emiliano, Enrico Rossi e Roberto Speranza) si vedranno e decideranno che fare”. Questi ultimi, infatti, firmano insieme una dichiarazione durissima: “Anche oggi nei nostri interventi in Assemblea c’è stato un ennesimo generoso tentativo unitario. È purtroppo caduto nel nulla. Abbiamo atteso invano un’assunzione delle questioni politiche che erano state poste, non solo da noi, ma anche in altri interventi di esponenti della maggioranza del partito. La replica finale non è neanche stata fatta. È ormai chiaro che è Renzi ad aver scelto la strada della scissione assumendosi così una responsabilità gravissima”.
Le parole di Michele Emiliano, che sembravano mostrare un’apertura a Renzi (“Io mi fido di lui, “nessuno gli ha mai chiesto di lasciare”), non distolgono il Presidente pugliese ad accordarsi con gli altri leader della minoranza democratica. Da parte sua, il governatore della Toscana, Enrico Rossi, è certo che una scissione ci sarà, e nel brevissimo periodo: “Ci sarà, a quanto mi risulta, un gruppo formato da chi esce dal Pd e chi esce da Sinistra Italiana, ma sosterrà il governo Gentiloni”.
Pronta, subito, la replica del vicesegretario Lorenzo Guerini: “Sono esterrefatto e amareggiato per la presa di posizione di Emiliano, Rossi e Speranza. Chiunque abbia seguito il dibattito si è potuto rendere conto che esso andava in tutt’altra direzione, intervento dopo intervento. Segno che questa presa di posizione, del tutto ingiustificata alla luce del confronto odierno nel Pd, era evidentemente una decisione già presa”.
Le ultime ore del Partito Democratico: il richiamo all’unità
Ma Matteo Renzi non appare troppo preoccupato. Il Partito Democratico, anche in caso di scissione, non sarà privo di un’ala di sinistra. Sul palco i tre “jolly” eredi di Berlinguer richiamano all’unità: Piero Fassino, Teresa Bellanova e l’”ideatore” del Pd, Walter Veltroni. “Il Pd nacque per fusione non per scissione”, apostrofa l’ex sindaco di Roma, che aggiunge: “se torniamo a Ds e Margherita non chiamatelo futuro”.
Della stessa idea Gianni Cuperlo: “Sono preoccupato, allarmato e turbato da questa giornata. Credo che si sottovaluti la ricaduta di quello che può accadere. La rottura del Pd sarebbe un arretramento e una sconfitta per la sinistra” che “sarebbe più debole e più esposta alle incursioni di una destra dai tratti più aggressivi e pericolosa”.
Le ultime ore del Partito Democratico: Orlando possibile “figura compromesso”
Si è già alla ricerca della “figura compromesso”, ovvero quella candidatura alla segreteria che possa evitare la scissione. Tra i nomi, il più “quotato” sembrerebbe l’attuale Ministro della Giustizia, Andrea Orlando. “Qualunque problema abbia il partito, l’idea che lo si possa risolvere con la scissione è sbagliata: apre un fronte che consente alla destra di rafforzarsi” dichiara il ministro subito dopo l’Assemblea.
Su Renzi aggiunge: “euforico della scissione? Mi auguro che non lo sia, il Pd rischia di diventare qualcosa di diverso da quello che avevamo pensato e non è una scissione che può farci gettare la spugna. Io dico ai compagni di non andarsene, restare e batterci dentro il Pd per farlo diventare una grande forza di sinistra. Oggi c’è bisogno di ripartire dalle idee che abbiamo per l’Italia”.
Le ultime ore del Partito Democratico: l’attacco del cinquestelle Di Maio
Ed è proprio su quest’ultimo punto che attacca Luigi Di Maio, il vice presidente cinquestelle della Camera, che interviene su ciò che sta accadendo dentro al Pd dall’Isola d’Elba, dove sta facendo tappa durante la fiera Tirreno Ct e balnearia. “Anche questo territorio ne è un esempio: avete un governatore che insieme ad altri governatori passa il tempo a fare battaglie interne ai partiti, a parlare di temi di cui agli italiani non interessa nulla perché stanno facendo le loro guerre di potere all’interno del Pd”. Continua: “Le istituzioni della Repubblica deve essere liberate il prima possibile dai vecchi partiti che le stanno tenendo in ostaggio mentre si combattono le loro battaglie”.
Le parti in gioco devono tutte tornare “a parlare di temi reali, dall’occupazione all’ambiente, che sono scomparsi dal dibattito politico – aggiunge il vice presidente della Camera -: nessuno li affronta più nei partiti tradizionali perché passa il tempo a parlare di premi di maggioranza, soglie di sbarramento, tessere, di congressi, tutta roba che non ci interessa”. Rivolgendosi agli elettori del Partito Democratico, lancia un appello: “andiamo avanti insieme sui temi, noi non siamo né di destra né di sinistra, è finita l’epoca della destra e della sinistra. A coloro che votano i vecchi partiti dico – conclude -: potremo non pensarla allo stesso modo su tutto, ma dateci atto del fatto che siamo rimasti gli unici ad affrontare i temi reali e lavoriamo insieme, collaboriamo tutti quanti insieme per realizzarli perché da anni ci dicono che vogliono risolverli ma non li hanno mai risolti questi problemi, anzi sono coloro che il hanno creati”.
Concludendo, la riflessione da fare è univoca. Il Partito Democratico nasceva con l’idea di semplificare il sistema partitico italiano. Meta: una competizione che da bipolare potesse divenire, piano piano, negli anni, bipartitica. Motivo principale? Un’impasse istituzionale, quella stessa impasse che la riforma costituzionale bocciata lo scorso 4 dicembre, a modo suo, cercava di superare. Il bicameralismo perfetto, da cui dipende il voto di fiducia al governo rimesso ad entrambe le camere, è uno dei principali motivi di instabilità istituzionale, vista la presenza di due differenti modalità d’elezione per Camera e Senato e, soprattutto, due diverse basi elettorali (il Senato è votato dai cittadini italiani aventi compiuto 25 anni di età, mentre per eleggere i deputati è sufficiente avere 18 anni).
In questo contesto, ciò di cui parla Di Maio, ovvero “procedere per temi”, a livello nazionale è sistematicamente impossibile. Infatti la fiducia ad un governo, rimessa ad entrambe le camere, la cui possibilità di avere differenze in termini di peso delle varie forze politiche è elevatissima – viste anche le differenti regole elettorali -, rimane fondamento dell’avvio e del proseguo di una legislatura. Pertanto, prima di “procedere per temi”, è necessaria la formazione di un governo, il che necessita dell’appoggio della maggioranza dei componenti di entrambi i rami del parlamento presenti al momento della votazione.
Tutto, dunque, sembra remare contro la stabilità istituzionale che, scientificamente, risulta essere l’unica meta a cui uno Stato dovrebbe tendere per esplicare adeguatamente le proprie funzioni, tra le quali primeggia il potere legislativo parlamentare.