Partito Democratico: Emiliano sfida Renzi e abbandona l’idea di scissione
L’oggetto è sempre lo stesso: il Partito Democratico. I soggetti idem: unitari e scissionisti. Le modalità d’azione dei soggetti nei confronti dell’oggetto e degli altri soggetti? In continuo cambiamento. La parola d’ordine rimane immutata: colpi di scena. Domenica si concludeva l’Assemblea nazionale del Pd, che dava il via alla fase congressuale, ufficialmente aperta ieri dalla Direzione, che ha votato la Commissione congresso proposta da Matteo Orfini in qualità di Presidente.
In occasione dell’Assemblea, il fronte scissionista firmava un accordo in previsione della formazione di una nuova entità politica di sinistra alternativa al Partito Democratico. Domenica il fronte scissionista era formato da Michele Emiliano, Enrico Rossi e Roberto Speranza. Durante l’assemblea, il Presidente della Puglia Emiliano aveva mostrato un’apertura a Matteo Renzi (“Io mi fido di lui”, “nessuno gli ha mai chiesto di lasciare”), ma l’intesa tra i tre scongiurava, ufficiosamente, la possibilità di uno dei tre di rimanere all’interno del Pd.
Partito Democratico: gli appelli all’unità
Da domenica sera a ieri pomeriggio (la Direzione nazionale si è riunita ieri dopo le 15.00) gli appelli all’unità si sono susseguiti e intrecciati: “la scissione significherebbe un suicidio per il Pd” dichiarava Romano Prodi mentre, incapace di rassegnarsi, compiva decine di telefonate; l’ex premier Enrico Letta in un post scriveva “non può finire così”, aggiungendo “Proprio nel momento in cui l’Europa, in crisi più che mai, avrebbe bisogno dell’impegno creativo degli ulivisti e democratici italiani. E proprio nel momento in cui il nostro Paese appare lacerato e in cerca di nuove ispirazioni per uscire dalle secche nelle quali si trova. Oggi non ho altro che la mia voce, e non posso fare altro che usarla così, per invocare generosità e ragionevolezza”; agli appelli dei singoli si aggiungevano i richiami all’unità delle segreterie provinciali e regionali, da nord a sud della penisola.
Partito democratico: il colpo di scena
Ma veniamo al colpo di scena. Alla Direzione nazionale di ieri il fronte scissionista si scinde. I bersaniani non partecipano, e con loro il Presidente della Toscana Rossi. Tra i grandi assenti, lo stesso Matteo Renzi, in viaggio negli Usa. Michele Emiliano, invece, si presenta e si candida alla segreteria, sfidando il segretario uscente.
“Mi candido, dunque, nonostante il tentativo del segretario uscente, chiaro a tutti, di vincere il Congresso ad ogni costo e con ogni mezzo, approfittando di aver gestito per tre anni tutto il potere politico, economico e mediatico di questo paese. Ha fretta perché non vuole rinunciare a questa posizione dominante. E non concede ai suoi avversari il tempo necessario per girare almeno la metà delle province italiane perché i suoi errori e le sue contraddizioni, ove discussi dai militanti in uno spazio ragionevole, provocherebbero un suo forte indebolimento”. E citando Che Guevara, conclude: “Chi lotta può perdere, chi non lotta ha già perso”.
E dunque Emiliano rimane, sì. Ma nel suo discorso non vi sono più quei toni di apertura a Renzi dell’Assemblea di domenica. Adesso i toni sono forti, di accusa. Continua il governatore pugliese: Matteo Renzi “è il più soddisfatto della scissione … – ho cambiato idea perché – questa è casa mia e nessuno mi può cacciare”. Dei suoi, ormai ex, compagni di battaglia, dice: “Enrico, Roberto ed io abbiamo impedito al segretario di precipitare il Paese verso elezioni anticipate”.E aggiunge: “sono persone per bene, di grande spessore umano e politico. E sono state offese senza ragione da toni arroganti”.
Partito Democratico: le reazioni alla candidatura di Emiliano
Le repliche al Presidente della Puglia non tardano ad arrivare. Durante la Direzione, Matteo Orfini, rivolgendosi a Emiliano, tuona: “Qui nessuno vuole cacciare nessuno, nessuno è felice della scissione. Cerchiamo di eliminare dal dibattito e dal congresso argomenti che ci lacerano”.
Dopo l’incontro, al quale non partecipa, Roberto Speranza, intervistato, dichiara: “Dalla Direzione Pd nessuna novità. Prendiamo atto della scelta assunta da Michele Emiliano di candidarsi nel PdR”, ovvero, ironicamente, il partito di Renzi. Enrico Rossi, da parte sua, è più schivo: “non ho da aggiungere nulla su questo punto … Io non ripenso a nulla. Sono serenissimo. Quando prendo una decisione in pace con la mia coscienza non ho da ripensarci. A meno che non accadano miracoli”.
Ma quali potrebbero essere questi “miracoli”? Le opzioni sono essenzialmente due: Renzi si fa da parte, rinunciando a candidarsi, e/o individuare una candidatura su cui possano convergere le due principali aree del Pd. La prima opzione, la più ambita dalla minoranza dem fin dagli inizi, è impossibile. Renzi non ha mai fatto segreto della sua intenzione di correre nuovamente per la segreteria. Per quanto riguarda la seconda, la candidatura di Emiliano, forse per risentimento, non ha fatto minima breccia sulla decisione di Rossi e Speranza di andarsene dal Pd. Inoltre, la possibile candidatura del Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, percepita come “figura di compromesso”, non ha trovato conferma durante la Direzione. Pertanto, la possibilità di un miracolo, come lo chiama il governatore toscano, è sempre più remota.
Matteo Renzi, negli States per incontrare, lo dice nella sua e-news, “alcune realtà molto interessanti” e “imparare da chi è più bravo a come creare occupazione, lavoro, crescita nel mondo che cambia, nel mondo del digitale, nel mondo dell’innovazione”, stamani aggiorna il suo blog, commentando la Direzione democratica di ieri: “Facciamola semplice, senza troppi giri di parole. Dal primo giorno della vittoria alle primarie del 2013 alcuni amici e compagni di strada hanno espresso dubbi, riserve, critiche sulla gestione del partito e soprattutto alla gestione del Governo. Penso che sia legittimo e doveroso in un partito democratico, di nome e di fatto, che chi ha idee diverse possa presentarle in un confronto interno, civile e pacato. Vinca il migliore e poi chi vince ha il diritto di essere aiutato anche dagli altri: si chiama democrazia interna”.
Partito Democratico: Bersani non rinnova la tessera Pd ma rimane nel centro-sinistra
E Pierluigi Bersani? Ospite a DiMartedì, con tono grave: “Non me la sento di rinnovare la tessera del Pd, non mi sento di partecipare a questo congresso, ma non vado certo via dal centrosinistra. Non è più la ditta, non è il Pd. Si è spostato. Noi non abbiamo fatto nessuno strappo, abbiamo chiesto questa discussione nei tempi normali”. E aggiunge: “Sostengo il governo, lo sosterrò sempre, ma chiederò di correggere qualche cosa, come sul lavoro e la scuola. Dal primo giorno – continua l’ex segretario – ho capito che con Renzi non mi sarei preso. Io con pochi voti ho vinto. Se questi qui con il 40% fanno vincere la destra li vado a cercare”.
Da un punto di vista sistemico, il discorso di Bersani contiene un punto critico: “Rimango nel centro-sinistra”. Rimanere nel centro-sinistra ad oggi, viste le regole elettorali, significa tutto e non significa niente. Il 40% di cui parla l’ex segretario rappresenta il quorum di voti validi che una lista, no una coalizione, deve raggiungere per conseguire il premio di maggioranza.
Se il Partito Democratico si scinde, cosa ormai appurata visto che Rossi e Speranza inneggiano già ad una nuova forza politica, o cambiano le regole elettorali, reintroducendo il premio coalizionale, o il Pd alle prossime elezioni correrà da solo, come, del resto, gli altri partiti. E, nel caso in cui il premio non scatti, sarà il proporzionalismo a comandare. A quel punto, il centro-sinistra di cui parla Bersani potrà ricongiungersi, se tutti in accordo, nella compagine governativa. Ma vi è un altro “se”, anzi, IL “se”: perché ciò possa accadere, una forza di centro-sinistra deve necessariamente vincere le elezioni. Il che non è così scontato.