Rock, spie e mafiosi: la faccia nascosta della musica
Rock, spie e mafiosi: la faccia nascosta della musica
Si pensi a un luogo simbolo della musica e delle tendenze in Italia: il Piper Club a Roma, per esempio, aperto nel 1965. L’arrivo del beat, gruppi italiani e stranieri, vestiti alla moda, migliaia di giovani da tutta l’Italia. E tra loro – adesso si sa – c’erano anche spie e osservatori di vario tipo. In particolare, agenti o emissari dei servizi segreti americani (come Roby Cunningham, giornalista e stampatore, persona di fiducia di vari artisti stranieri e, secondo alcuni, infiltrato negli ambienti dell’estrema sinistra) nonché informatori delle forze di polizia. Tutti loro erano incaricati di monitorare cantanti e musicisti e di prestare attenzione al pubblico che li venerava; mentre altri suonavano e ballavano, altri lavoravano per cogliere eventuali minacce alla sicurezza o all’ordine pubblico. Qualcosa di simile si è ripetuto per anni in locali, a concerti, raduni ed eventi con la musica al centro.
Si tratta di una storia non nuova, in fondo, ma raccontata sempre sottovoce e quasi mai messa per iscritto. Lo ha fatto da pochissimo Michele Bovi, nel libro Note segrete (Graphofeel, 18,50 euro). In 280 pagine percorre anni di musica suonata e narrata in prima persona. Sassofonista con la passione del pop (ha anche fatto da spalla a Jimi Hendrix nel 1968 a Roma con i Boa Boa di Pierfranco Colonna), Bovi ha lavorato in Rai, prima come giornalista, poi come dirigente. Al Tg2 e come capostruttura per l’intrattenimento (di Rai2 e, fino al 2015, di Rai1) ha curato molti programmi musicali. Anche Note segrete discende dall’esperienza di Segreti Pop, ciclo andato in onda su Rai1 tra il 2014 e il 2015.
Mafia connection, tra Italia e America
Gran parte del libro è dedicata alle relazioni pericolose – più o meno consapevoli e inevitabili – tra musica e mafia. La storia inizia da lontano, dal tenore Enrico Caruso (amico di Giacomo “Big Jim” Colosimo, capomafia di Chicago). Dagli anni ’20 Cosa Nostra capì che la musica era utile per aggregare e controllare le comunità italiane d’Oltreoceano. Subito dopo divenne un’importante fonte di affari, soprattutto mediante il controllo delle edizioni musicali, con cui intascare i diritti del repertorio italiano e napoletano. Impresari, manager, organizzatori di serate con artisti italiani erano spesso legati alle famiglie mafiose più potenti.
Non occorreva cambiare continente, peraltro, per incontrare intromissioni della malavita organizzata nelle esibizioni dei cantanti più famosi. Cambi di scaletta, autorità e boss presenti allo stesso tavolo, organizzatori dal look ostentato e inquietante compaiono nei racconti di artisti come Fausto Leali e Vince Tempera o di impresari come Gianni Marsili. Alle loro testimonianze si accompagnano i pareri di “tecnici” come Roberto Di Nunzio (esperto di intelligence) e l’ex generale della Guardia di Finanza Umberto Rapetto (ora docente di tecniche investigative digitali). Alcuni rapporti tra criminali e cantanti sono ricordati da Bovi con testimonianze; su tutti, quello tra Franco Califano e Francis Turatello, boss noto negli anni ’70 (il bambino ritratto sulla copertina di Tutto il resto è noia era proprio il figlio di Turatello).
Note segrete (musica): un gangster a Sanremo
Una delle sezioni più sorprendenti è costruita intorno a Giuseppe Antonio Doto, più conosciuto come Joe Adonis, uno dei gangster più sanguinari di Cosa Nostra, a lungo compagno di strada di Lucky Luciano. Grande appassionato e amico di Frank Sinatra (anzi, forse il suo “scopritore”), Adonis aveva gestito a lungo la programmazione artistica del night-club più importante di New York (il Copacabana) parallelamente alle sue attività illecite. Estradato in Italia (per evitargli destini peggiori) nel 1956, stette a lungo a Milano, facendone base per i suoi affari (gioco d’azzardo, traffico di preziosi e di stupefacenti). Nel 1971 il tribunale di Milano decise di “confinarlo” per quattro anni a Serra de’ Conti, paesino in provincia di Ancona; lui, quasi settantenne, vi morì pochi mesi dopo.
Per molti artisti, invece, Adonis ha rappresentato una figura ben diversa rispetto al mafioso. Habitué dei night italiani – locali di cui Bovi traccia un interessante profilo storico-musicale, anche attraverso la testimonianza di Raf Montrasio e il ricordo delle orchestre di Renato Carosone e Marino Marini – e molto generoso con chi vi cantava e suonava bene, Adonis divenne presto l’interlocutore principale dei discografici italiani che speravano di trovare spazio nel mercato statunitense.
Profondo ammiratore di Mina, Adonis divenne intimo di numerosi cantanti di casa nostra, da Dori Ghezzi a Tony Renis; questi chiese addirittura la mediazione dell’ex gangster sperando di ottenere la parte di Johnny Fontane nel Padrino (ma alcune intercettazioni mandarono tutto all’aria). Lo si vide molto spesso a Sanremo, nel periodo del Festival, a seguire i suoi artisti preferiti. Per loro, Adonis era soprattutto una persona premurosa, appassionata e con un grande fiuto musicale.
Note segrete (musica): se la mafia rovinò la musica a colori
Cosa Nostra ebbe pure un ruolo nella conclusione di un’esperienza singolare, che permetteva di vedere gli artisti a colori già alla fine degli anni ’50 (in Italia la tv lo sarebbe diventata a febbraio del 1977). Il riferimento è al Cinebox, apparecchio inventato dal romano Pietro Granelli e costruito dalla OMI; l’azienda per anni aveva fabbricato apparecchi fotografici da ricognizione per l’aeronautica militare. Al tema Michele Bovi aveva già dedicato varie trasmissioni tv e alcuni libri; un riferimento non poteva mancare in quest’occasione, per far conoscere una storia ancora ignota ai più.
Presentato nel 1959, già nel 1960 il Cinebox dovette fronteggiare la concorrenza del “cugino” francese Scopitone; entrambi gli apparecchi, probabilmente, erano già stati utilizzati in ambito militare. Nate per fare un passo avanti rispetto al jukebox, permettendo al pubblico di apprezzare cantanti famosi ed esordienti in proto-videoclip, le due macchine si sfidarono sul mercato europeo e americano. Lo Scopitone prevalse quasi sempre, per le riprese più audaci e di qualità più elevata e per il repertorio più internazionale ed “esportabile”; a dare il colpo di grazia all’apparecchio francese, tuttavia, fu la troppa vicinanza alla mafia.
La persona incaricata di gestire i diritti dello Scopitone oltreoceano, si rapportava con i club di Las Vegas controllati da Vito Genovese (a sua volta legato a Lucky Luciano), dunque con Cosa Nostra; sempre di soggetti riconducibili alla mafia erano i fondi che dovevano servire ad amministrare la società titolare dell’apparecchio in America. Quegli affari finirono nel mirino del Gran Giurì Federale presieduto da Robert Kennedy; il discredito sugli antenati del videojukebox fu tale che, prima della fine dei ’60, l’avventura americana era finita. In Italia, in compenso, il Cinebox era già entrato in crisi nel 1965, per problemi tecnici e costi troppo alti; la mafia, in questo, non aveva responsabilità.
Note segrete (musica): osservat(or)i speciali
Anche quando la malavita non c’entrava, le forze dell’ordine e gli apparati di sicurezza tenevano sotto controllo – anche attraverso loro informatori – gli artisti e il loro pubblico. Si è detto del Piper, che peraltro aveva tra i suoi proprietari l’avvocato Alberigo Crocetta, già militante nella X Flottiglia Mas di Junio Valerio Borghese; ne aveva fatto parte pure il fratello maggiore del socio di Crocetta, Giancarlo Bornigia. Anche altrove, tuttavia, c’era chi guardava e ascoltava con attenzione o riusciva comunque a carpire informazioni utili.
Allora bastava fondare per scherzo il Partito estremista dell’Urlo – come avevano fatto Little Tony, Ghigo e Brunetta – per finire all’attenzione degli investigatori. Certi artisti, poi, a loro insaputa, avevano i loro osservatori in famiglia, come Jerry Puyell, eclettico rocker della prim’ora. Lui, che all’anagrafe faceva Mario Puglielli, ai concerti e alle prove era assiduamente seguito dal padre, Giuseppe, già generale; la sua attività, una volta dismessa la divisa, era ignota pure ai familiari. Fu lui, peraltro, a prevenire tumulti al primo Festival del Rock and Roll a Milano, il 18 maggio 1957; Puglielli senior, in borghese, invitò i militari a far entrare al Palazzo del Ghiaccio i 6mila giovani lasciati fuori e non accadde nulla.
Persino una delle più importanti realtà discografiche del tempo, la Rca Italiana, non era estranea allo spionaggio. Vari artisti non si sono accorti di nulla; altri, come i Rokes di Shel Shapiro e Johnny Charlton, avevano avuto sospetti. Non a caso Guido Crapanzano, oggi numismatico, già mastodontico urlatore del Clan col nome di Guidone, scherzosamente chiamava l’azienda R-CIA. E colpisce scoprire che un pacchetto di azioni della Rca nostrana fosse incredibilmente nelle mani di Joe Adonis.
Note segrete (musica): Paese che vai, spie che trovi
A volte anche aprire un nuovo locale poteva comportare, in cambio della licenza, la richiesta di fornire informazioni allo Stato. Lo sapeva Enrico Rovelli, che nel frattempo si è affermato come produttore musicale. Per inaugurare il suo Carta Vetrata a Milano, nel 1969, dovette dare indicazioni sul suo circolo anarchico; quando i suoi trascorsi da informatore sono stati resi pubblici, peraltro, Vasco Rossi non lo volle più come manager.
Anche suonare all’estero, peraltro, non era una passeggiata: farlo senza essere osservati era difficile. Lo ricorda Gianni Colaiacomo, già bassista del Banco del Mutuo Soccorso, a proposito di un’esibizione a Cuba nel 1982; lo conferma Enzo Ghinazzi, cioè Pupo, ripensando ai suoi tour in Unione Sovietica ricchi di personaggi inquietanti.
Note segrete (musica): “garantisce lei per Battisti?”
E’ probabile che i servizi abbiano tenuto d’occhio anche Lucio Battisti, tra gli artisti di maggior successo negli anni ’60 e ’70; mai, peraltro, è emerso qualcosa di preoccupante (le dicerie che lo volevano simpatizzante della destra estrema erano infondate). Quando però nel 1976 lui progettò d’andare negli Stati Uniti per incidere un disco e magari trasferirvisi, l’ambasciata Usa s’interessò. Fu convocato Franco Migliacci, noto in America come autore di Volare, e tre diplomatici americani lo interrogarono. “Ci garantisce che Battisti non è un pericolo per la nostra sicurezza nazionale?”: lui, ovviamente, confermò.
Di quell’avventura americana di sei mesi restano Images, disco sfortunato, nonché filmati e diverse ore di telefonate registrate. Dietro la cinepresa e all’altro capo del telefono c’era Gianfranco Petrignani; dieci anni prima aveva suonato con Battisti nel complesso di Enrico Pianori. In seguito per Petrignani era iniziata una fortunata carriera da cantante melodico a Parigi e a Las Vegas; quando seppe che Lucio era in America, lui riprese i contatti. Petrignani (scomparso nel 2009) diceva di registrare ogni telefonata per riascoltarla, non sapendo bene l’inglese; anche le chiamate di Battisti – trasmesse in parte da Bovi – finirono in quelle bobine, rimaste ignote ai più per anni. Non finirono in mano ai servizi statunitensi, ma probabilmente pure loro si informarono sull’autore di Emozioni.
Il libro di Michele Bovi – che si avvale di un nutrito apparato iconografico e dell’impaginazione curata di Ines Paolucci – ha il merito di rendere fruibili a un pubblico più vasto i contenuti della sua ultima inchiesta. Certo, leggendo Note segrete viene spontaneo chiedersi quanto altro ci sia da scoprire, se sia stato detto tutto il possibile. Il tentativo di fare luce su pagine fin qui ignorate o solo supposte è comunque apprezzabile; chissà che ad altri non venga voglia di indagare, prima che sia troppo tardi…