Il meccanismo del dumping sociale (di cui ho parlato qui) determina una situazione di vantaggio esclusivamente per il capitale internazionale. Per le grandi imprese, multinazionali e transnazionali, che possono disinvoltamente cogliere le opportunità offerte dalla corsa al ribasso.
La crescita prodotta dagli investimenti occidentali è molto diseguale. Niente a che vedere con la diffusione del benessere che gli Stati Uniti e l’Europa hanno conosciuto nella seconda metà del Novecento.
Come?
La globalizzazione economica e il dumping sociale alterano il già delicato rapporto tra capitale e lavoro, spostandolo sul piano internazionale. Capitale e lavoro non si muovono con la stessa facilità attraverso le frontiere. Un’impresa apre e chiude i suoi stabilimenti in giro per il pianeta con molta facilità, aiutata dagli incentivi e dai sussidi governativi. I lavoratori, le persone non si spostano attraverso i continenti con la stessa semplicità.
Lo sviluppo sociale dell’Occidente, iniziato con la rivoluzione industriale circa due secoli fa, vedeva invece capitale e lavoro condividere un interesse comune. Pur contrapposti per molti aspetti, erano uniti da qualcosa che li “costringeva” a cercare una convivenza: entrambi vivevano e agivano sullo stesso territorio. E hanno dovuto trovare il modo di coesistere senza che l’uno affamasse l’altro e senza che l’altro minacciasse una rivoluzione totale.
Ecco che la globalizzazione, in questo equilibrio, altera il potere negoziale delle due parti.Tecnologie moderne e dazi ridotti al lumicino conferiscono al capitale una exit option: la possibilità di delocalizzare. I lavoratori, se non vogliono perdere il posto, è meglio che la smettano di rivendicare diritti e chiedere salari migliori, e anzi inizino ad accettare l’idea che le conquiste del passato vanno messe in discussione.
Il posto fisso? Non va più di moda. Una pensione dignitosa? Un lusso che non possiamo più permetterci. Ferie, maternità e malattie? Abbassano la produttività. Il lavoro non ha una exit option, e deve adeguarsi. Il dumping sociale sta realizzando un’autentica contro-riforma del progresso sociale: un’epocale redistribuzione di benessere che coinvolge diritti, salari e profitti e che toglie al lavoro per dare al capitale.
I paesi di recente industrializzazione, in questo contesto, non potranno mai replicare l’esperienza del progresso sociale realizzato nei secoli in Occidente. Anche per altre due ragioni.
Innanzitutto, per una ragione se vogliamo “filosofica”: la storia non si ripete mai uguale a se stessa. Il percorso che ha portato al progresso sociale dell’Occidente si colloca in un preciso contesto storico, economico e politico. Le sue dinamiche, i suoi protagonisti, le ideologie, le battaglie e le vicende attraverso cui si è sviluppato non potranno ripetersi oggi. La “minaccia” di una rivoluzione popolare e di una “dittatura del proletariato” non è più, oggi, storicamente credibile.
L’altro motivo ha natura storico-politica. Insieme ai movimenti operai e al pensiero socialista, a partire dall’Ottocento, si sono affermate anche le dottrine liberal-democratiche. Anche questa vicenda storica è propria dell’Occidente. Alcuni dei paesi di recente industrializzazione hanno importato il modello occidentale di democrazia liberale, ma molti hanno instaurato dei regimi autoritari in cui il ruolo del governo e del partito al potere è centrale e non conosce limitazioni. L’assenza di una società civile libera, aperta e strutturata costituisce un ostacolo formidabile all’avanzamento dei diritti sociali e del lavoro. Concedere la libertà di associazione sindacale ai lavoratori, ad esempio, costituirebbe un rischio insostenibile per un sistema politico a partito unico, come quello cinese, che non riconosce la libertà di associazione tout court ai suoi cittadini. Scioperi e manifestazioni sarebbero, ovviamente, impossibili.
La storia del progresso sociale che ha conosciuto l’Occidente, quindi, difficilmente potrà ripetersi oggi, due secoli dopo, nel resto del mondo. Le economie “emergenti” continueranno a crescere senza un autentico sviluppo, facendosi concorrenza tra loro e lasciandosi trascinare dagli investimenti stranieri, attratti dal costo irrisorio di una manodopera senza diritti, senza protezione e, quindi, iper-sfruttata. Come avviene nelle centinaia di export-processing zones sorte negli ultimi decenni in questi paesi. Dalle maquiladoras messicane alle fabbriche-città cinesi. Aree industriali dove si producono le griffes dell’Occidente. Porzioni di territorio dove le normative sul lavoro (già molto deboli) vengono ulteriormente derogate e ridotte. Simulacri delle nuove schiavitù.
La speranza che la crescita industriale debba necessariamente tradursi in progresso sociale, purtroppo, è destinata a rimanere frustrata.
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