Debora Serracchiani è razzista?
Debora Serracchiani è razzista? Riflessioni di filosofia politica
La presidente della regione Friuli-Venezia Giulia Debora Serracchiani è al centro di una polemica; il suo commento al tentativo di stupro subito da una giovane ragazza triestina ha ricevuto critiche. Dice la Serracchiani: «La violenza sessuale è un atto odioso e schifoso sempre, ma risulta socialmente e moralmente ancor più inaccettabile quando è compiuto da chi chiede e ottiene accoglienza nel nostro Paese». Inoltre ha proseguito:
In casi come questi riesco a capire il senso di rigetto che si può provare verso individui che commettono crimini così sordidi. Sono convinta che l’obbligo dell’accoglienza umanitaria non possa essere disgiunto da un altrettanto obbligatorio senso di giustizia, da esercitare contro chi rompe un patto di accoglienza. Per quanto mi riguarda, gesti come questo devono prevedere l’espulsione dal nostro paese, ovviamente dopo assolta la pena. Se c’è un problema di legislazione carente in merito bisogna rimediare.
Le parole trascendono la Serracchiani
Tratterò queste parole come un’argomentazione senza autore; il discorso intende trascendere la stucchevole cronaca politica quotidiana. Sottolineo in particolare due aspetti della polemica perché evidenziano un senso comune diffuso nel ceto politico ed intellettuale; qui si registra un notevole cambiamento, rispetto ad alcune coordinate tradizionali del discorso politico. La riflessione arriva fuori dai tempi giornalistici, ma la riflessione per sua natura non può che essere lenta.
Il giudizio comunitario su un crimine individuale
Il primo elemento interessante nel discorso della Serracchiani è che giudica il fatto sul piano sociale e morale. Insomma, fa riferimento tanto alle ragioni individuali della vittima, quanto a quelle della comunità in cui il fatto viene compiuto. Questo è di per sé inaccettabile per il senso comune morale contemporaneo ove l’azione sbagliata o criminosa è giudicabile solo in relazione alle ragioni di chi ha subito quel torto.
C’è un rapporto contrattuale – mediato chiaramente dall’ordinamento vigente – fra due individui. Il principio di giustizia, sul piano morale, è legato unicamente a questi; non esiste cioè la possibilità di un atto criminoso-immorale nei confronti della comunità, ma sempre e solo nei confronti dell’individuo. Quindi, a partire da questo dato, la discriminante filosofico-morale è se un atto individuale sia giudicabile dalla comunità o sia un problema morale fra lui e un altro. Ovviamente nel diritto permane una distinzione fra il pubblico e il privato, ma gli attori della sfera pubblica non sono mai niente più che individui e tutti i fatti sociali sono azioni di questi o relazioni fra questi.
Lo statuto di “ospite” influisce nel giudizio?
Venendo però al nucleo della polemica (ma quanto detto in realtà ne è strettamente legato) l’accusa mossa è quella di razzismo. Si fa riferimento al differente giudizio morale-sociale su un atto criminoso se commesso da chi viene accolto in un paese per ragioni umanitarie e chi invece è cittadino autoctono del paese in cui viene compiuto. Un fatto ovvio se si leggono attentamente le dichiarazioni, è che di razzismo non c’è nemmeno la traccia. Il riferimento non è al colore della pelle, alle origini etniche o altri elementi del genere, bensì allo statuto di ospite.
Viene cioè demarcata una linea fra un dentro e un fuori dalla comunità. Il rifugiato, ospitato e accolto con ragioni inoppugnabili, rimane un ospite; egli stipula un patto di accoglienza con chi lo ospita. In questo senso, in questa linea di demarcazione, si potrebbe – con ragioni perfettamente plausibili – affermare che non c’è differenza se l’atto criminoso-immorale è compiuto da un membro della comunità o da un ospite; entrambi sono tenuti a rispettare i medesimi principi.
Distinguere tra cittadino e ospite è razzismo?
Il punto è che l’argomento degli attacchi non è stato questo. L’accusa mossa ci dice che chiunque tracci una linea dentro/fuori è implicitamente razzista; ciò presuppone che un rifugiato non venga accolto ma sia un abitante di quel luogo. Parimenti, potrebbe abitare ogni altro luogo sul suolo terrestre. Si vede così come il discorso si riallacci con il primo punto. Molti pensano che la comunità non possa giudicare l’individuo; parimenti, non esisterebbe comunità che possa ospitare qualcuno di esterno e con questo stipulare un patto di accoglienza.
La virtù può essere perseguita solo in uno spazio delimitato
Il filosofo scozzese Alasdair MacIntyre farebbe notare che per un uomo formatosi nella tradizione aristotelica un simile discorso è assurdo. C’è infatti sempre una comunità con l’idea di un bene comune. Solo qui può essere contenuta l’idea che l’accoglienza di chi ne ha immediata necessità è dovere di ogni uomo. Occorre comunque che la comunità si regga su virtù che la consentano.
MacIntyre direbbe che negare la possibilità di un bene comune e condiviso da tutti i membri della comunità e negare l’esistenza stessa di uno spazio comunitario in cui si sostanzi questo bene implica l’impossibilità dello sviluppo di quelle virtù che ci consentono di accogliere chi ne ha la necessità. La negazione della demarcazione dentro/fuori e della possibilità di fondare un bene comune, apre così ulteriori aspetti meritevoli di ulteriore approfondimento.
Una riflessione di Alessandro Volpi per Nipoti di Maritain