(In collaborazione con Mediterranean Affairs)
Alla ricerca di un premier. Dopo gli ultimi mesi di schizofrenia politica, i libici sono chiamati nuovamente alle urne per eleggere il loro Primo ministro. Tra marzo e giugno tre uomini si sono avvicendati al potere: prima lo sfiduciato Ali Zeidan, poi il dimissionario Abdullah Al Thani, in ultimo Ahmed Maitik, la cui elezione è stata dichiarata incostituzionale. Sullo sfondo un contesto socio-economico turbolento e un uomo che muove le fila, il generale Kahlifa Haftar.
Ex fedelissimo di Gheddafi rientrato in Libia al momento della caduta del regime per guidare le forze di terra del Consiglio di transizione, Haftar conduce oggi l’Operazione dignità, aspra offensiva contro le milizie islamiche nell’est del Paese. Vero regista della destituzione di Maitik, ha dalla sua parte le Forze speciali (ossia l’élite dell’esercito regolare), gli ufficiali di aria di Tobruk, la potente tribù cirenaica Al Barasa e le Brigate Zintan, che fanno base nel nord-ovest della Libia. Questo fronte ha come suo candidato Mahmud Jibril, attuale leader delle forze non islamiste in Parlamento.
Dall’altra parte del ring la fazione islamista, il cui vero candidato rimane Maitik, rampante imprenditore nipote di Abdulrahman Swehli, influente leader di Misurata. Questa corrente vede come suo esponente di spicco il Presidente del Parlamento e della Repubblica ad interim Nuri Abu Sahimin ed è composto dal Partito della Giustizia e della Costruzione e dalle milizie di Misurata. Rimangono in campo Al-Thani, che fin dal principio aveva misconosciuto l’elezione di Maitik ed è l’attuale premier ad interim, e Ali Zeidan, rientrato nel Paese lo scorso 19 giugno dopo un periodo di esilio in Germania. Sullo sfondo della contesa elettorale, si pone il possibile golpe di Haftar che, in un futuro più o meno prossimo, non può essere escluso.
A fare da cornice alle consultazioni è una situazione economica critica. Negli ultimi mesi, il blocco dei porti marittimi ha causato un crollo delle rendite petrolifere, con la produzione di greggio passata da un milione e mezzo a duecentocinquantamila barili al giorno. Parallelamente la valuta nazionale, il dinar, è crollata del 7% rispetto al dollaro. Un eventuale definitivo venir meno dello Stato assistenziale, alimentato dai proventi dell’olio nero e a lungo unico vero collante sociale del Paese, difficilmente sottrarrà la Libia da scenari anarchici.
Considerazioni importanti vanno inoltre mosse sulle ingerenze esterne, che infiltrano e condizionano gli attuali conflitti domestici libici. In un Paese diviso e conteso da più di milleduecento milizie, la lotta fra laici democratici e radicalismo islamico vede sullo sfondo un duello più ampio: quello fra Arabia Saudita ed Emirati Arabi da una parte e Fratellanza Musulmana dall’altra, che si contendono la leadership della fede islamica nella regione mediorientale. Si tratta di una partita che non si gioca solo in Libia, ma anche (con dinamiche simili) in Egitto, Siria e Yemen.
Il voto del 25 giugno non porterà un governo forte. È improbabile ipotizzare scenari di equilibrio politico se prima la Libia non troverà la sponda di un ente, consuetamente individuato nella comunità internazionale, capace di trovare una sintesi virtuosa fra i numerosissimi ed eterogenei localismi di cui si compone il Paese. Unione Europea e Stati Uniti, dopo aver chiuso l’epoca Gheddafi, hanno il dovere politico e morale di accompagnare Tripoli in una transizione che garantisca la stabilità, non solo mediorientale, ma anche occidentale.
Matteo Anastasi
(Mediterranean Affairs – Editorial board)