Don Milani e don Mazzolari, un percorso d’amore e parole
Don Milani e don Mazzolari, un percorso d’amore e parole
La visita di Papa Francesco, il 20 giugno, ai luoghi di don Lorenzo Milani e don Primo Mazzolari ha ridato loro attenzione; passati i giorni canonici, quelli delle ricorrenze, delle notizie e dei commenti rimbombanti da ogni parte, vale la pena tornare su queste due figure.
Il primo personaggio è più noto del secondo, ma entrambi sono in realtà poco conosciuti; troppe persone parlano di loro avendo letto, quando va bene, poche righe. E’ il caso, allora, di farsi accompagnare alla ri-scoperta di don Milani e don Mazzolari, come uomini e come sacerdoti; nel percorso, alcuni libri freschi di uscita o di qualche anno fa possono essere d’aiuto.
La vita di don Milani
E’ difficile capire il valore delle parole di don Lorenzo Milani se non si conosce la sua esperienza umana e religiosa; nessuno forse può raccontarla meglio di Michele Gesualdi, uno dei primi sei studenti della “scuola di Barbiana”. Lui, già sindacalista e presidente della provincia di Firenze, presiede la Fondazione intitolata al sacerdote; al suo fianco ha trascorso dodici anni. Nel libro Don Lorenzo Milani. L’esilio di Barbiana (255 pagine), pubblicato da San Paolo, ripercorre la strada di don Lorenzo; una strada ricca di ricordi e sofferenze, che riguardano l’uomo di Chiesa, l’insegnante, il “fratello-babbo”.
Il volume racconta la storia di don Milani, attraverso l’esperienza diretta dell’autore e le testimonianze da lui raccolte. Punto di forza è che Michele Gesualdi – lo scrive Andrea Riccardi nella prefazione – “ha incontrato davvero don Milani. Ne ha conservato la memoria storica con affetto e puntualità. Ha riflettuto e approfondito. Oggi ci offre il distillato della sua ricerca e della sua memoria. Egli non ‘clericalizza’ Milani, ma lo restituisce alla sua dimensione fondamentale, da cui scaturiscono non solo l’azione pastorale per i poveri, ma l’impegno educativo e sociale, il messaggio civile e tant’altro”.
Le pagine sono il tentativo – riuscito – di dar conto di una storia complessa, per chi non l’ha vissuta direttamente. Narrano di una persona che, da uomo di Dio prima che da cittadino, è riuscita a impartire lezioni da gigante; di più, l’ha fatto pur essendo “imprigionato – si legge – dietro le sbarre della solitudine e del niente di una montagna”. La condanna di parte della società (per la sua difesa dell’obiezione di coscienza) e l’incomprensione dolorosa della Chiesa non hanno fermato un cammino che ha trasformato un esilio in ricchezza.
Temprarsi in esilio
Il libro parte dalla giovinezza e dagli anni (mai supini) del seminario; si passa all’apostolato, a Montespertoli e a San Donato di Calenzano. Milani emerge come “prete che – così lo definisce Michele Gesualdi – tiene saldamente i piedi nella società del suo tempo”. Per questo punta sulla “scuola popolare”, per dare ai poveri il dominio del sapere e della parola; li forma a una coscienza critica, senza steccati ideologici, per diventare migliori.
Quell’esperienza – raccontata nei dettagli, con testimonianze e lettere – unisce fedeli e lontani dalla Chiesa. I cattolici tradizionali e i vertici ecclesiastici, però, la avversano, fino all’esilio a Barbiana; una terra “senza storia, senza strada, senza luce elettrica, senza acqua nelle case, senza scuola, senza speranza e senza futuro, destinata ad essere cancellata dalla memoria”.
In quell’angolo sperduto del Mugello, il sacerdote potrebbe crollare; invece si tempra, non cede a compromessi né rinuncia “alla gioia di dire sempre la verità”. Per Gesualdi si esilia il corpo, non lo spirito; crollano le diffidenze tra i paesani, schiacciati dalla mezzadria, e un prete che parla come loro. Nasce un’altra scuola, 365 giorni l’anno, grazie al Priore, ai ragazzi, all’instancabile Eda Pelagatti e agli altri aiutanti.
L’autore riporta sensazioni profonde e ricordi personali (anche degli ultimi giorni di vita di Milani), più che le lezioni; “Barbiana era molto più di una scuola, era un vivere in comune. Una piccola comunità di eguali, ognuno sapeva tutto di tutti”. La povertà di quella canonica-aula “ancora oggi parla e muove ogni anno centinaia di scuole, associazioni, famiglie e persone che salgono fin lassù per toccare con mano” l’eredità di quell’esperienza.
A mezzo secolo dalla morte del sacerdote (rimasto tredici anni a Barbiana nell’ostilità dei suoi superiori), l’attualità del messaggio è intatta; “le storture contro le quali don Lorenzo si è battuto ed ha insegnato a combattere – scrive Gesualdi – esistono ancora. Ieri come oggi ci sono nella società i primi e gli ultimi, i colti e gli incolti, gli inseriti e gli emarginati, i poveri e i ricchi. Le Barbiane nel mondo sono ancora tante e i barbianesi molto più numerosi, hanno solo cambiato luogo e pelle”.
La scrittura di don Milani
Acquisita più familiarità con la biografia del sacerdote toscano, è davvero tempo di leggere le sue parole con attenzione; lo stesso Michele Gesualdi ha dipinto quelle di Milani come “parole forti ed incisive, che arrivano, scuotono e muovono i sentimenti più alti, nascosti nella coscienza di ogni persona”. L’occasione per la lettura è data dall’uscita per Mondadori di Tutte le opere di don Milani, nella collana “i Meridiani”; si tratta dell’edizione critica e integrale, in due tomi (quasi 2800 pagine), di tutti i suoi scritti, pubblicati negli anni.
Leggendo la densa introduzione dello storico Alberto Melloni (direttore dell’edizione) si comprende il valore della parola scritta per il sacerdote; scrivendo don Milani “vive e si tiene vivo, quando tutto intorno a lui sembra minacciare gli affetti e la sete di vita che lo brucia. Con la scrittura vuole riscattare la propria vita dal rischio di diventare espressione di un percorso ‘privato’, privo di un senso generale. Con la scrittura ingaggia un corpo a corpo per potarla di ogni orpello, partizione, ambiguità. La fa diventare un’opera che collega il libro della sua vita alle tante lettere pubbliche o personali o intime, tutte legate dalla spietata spoliazione retorica, e da un’urgenza che percorre, come un inconfessabile brivido messianico, la sua breve esistenza e le sue svolte più drammatiche”.
Melloni sottolinea il valore della parola nell’opera di Milani: una parola che “consegnandosi diventa performativa, si trasmette come una chiave universale della vita e della fede, senza concedere mai alla fede un accesso diverso”. Accade quando il sacerdote parla, essendo parola che colpisce, che “fa”; accade a maggior ragione quando scrive. Il potere della scrittura, specie se rivolta a un destinatario preciso (come nelle tante lettere raccolte nell’opera), è accresciuto da “una cura maniacale, fatta di parsimonia”.
Lottare con carta e penna
Sembra sartoriale l’espressione di Melloni, che definisce Milani – anzi, lo chiama μ, “mi”; non vuole trattare il nome del sacerdote come un marchio, spesso evocato a sproposito – “un uomo che con la penna e con la carta lotta per tutta la vita”. La lotta emerge chiaramente per chi ripercorre oggi con attenzione i suoi scritti. Vale per i due libri e per le lettere più note (come quelle ai cappellani militari e ai giudici, legate alla querelle sull’obiezione di coscienza); vale per le missive – raccolte nel Meridiano – spedite alla madre e agli altri destinatari. Sono parole scabre, dirette, tagliate ad angolo vivo, anche quando sono piene d’amore.
Quella chiarezza non consente d’equivocare il messaggio di Milani (ma Melloni e Michele Gesualdi denunciano tentativi di travisamento o appropriazione); la lettura dei suoi testi apre gli occhi su un’intera concezione del popolo, della Chiesa, del “prendersi cura”. Non a caso, per Melloni il sacerdote nello scrivere “fa emergere le ipotesi fallite di rinnovamento di un Paese malato, i tentativi frustrati di riforma della Chiesa, l’utopia ritornata per altre vie nella primavera bergogliana di un cristianesimo vissuto” coi poveri (quelli veri), “il sogno di una ‘sinistra’ liberata dal conformismo snob e da tic piccoloborghesi che le anime più sensibili sentivano già nella stagione staliniana e poststaliniana”.
L’analisi dello stile di Milani si mescola inevitabilmente al tentativo di ripercorrere la sua biografia; Melloni lo fa in modo sentito ed evidentemente partecipe, mettendo a fuoco ciò che ha concorso a formare μ. L’autore di Esperienze Pastorali, nonché l’uomo che fa indigestione di Cristo, che dà la parola a chi non l’ha; ma anche il maestro che, senza farsi teorico della scuola, è premuto dalla giustizia (umana/divina) e preme per essa. Una figura complessa, che merita attenzione per ogni parola scritta e detta, onde evitare che qualcosa sfugga. Un’attenzione che il meticoloso lavoro di raccolta e annotazione di Federico Ruozzi e degli altri curatori rende più facile prestare.
Don Milani come maestro scomodo
Avendo davanti i testi, è facile rendersi conto delle varie sfaccettature di don Lorenzo Milani; tutte quante trovano armonia nella stessa persona, ma trascurarne qualcuna significa non cogliere realmente il valore di quella figura. Cerca di fare una ricostruzione completa Pacifico Cristofanelli, grafologo, per molti anni insegnante e preside; è da poco uscito per le Edizioni Dehoniane di Bologna Il maestro scomodo. Attualità di don Lorenzo Milani (220 pagine). Si tratta della riedizione accresciuta di un’opera del 1975 (Pedagogia sociale di don Milani), che cerca di compendiare tutti gli aspetti degni di nota.
Certo, parlare di don Milani porta con sé dei rischi. Il maggiore, dal quale mettono in guardia tutti gli autori citati, è la mitizzazione, l’esaltazione; si rischia di trasformare una figura complessa in una ricetta universale, a uso e consumo di chi la cita. Al contrario, il messaggio fortissimo proveniente da Calenzano e Barbiana resta inevitabilmente legato a quelle circostanze; i tempi sono cambiati ed è fondamentale tenerne conto. “Don Milani – scrive l’autore – è anche oggi maestro scomodo perché continua a turbare e a responsabilizzare. Il miglior servizio che si possa rendere a questo maestro è quello di mettersi subito al lavoro, di non attendere neppure un momento, di ‘sporcarsi le mani’.”
Cristofanelli, dunque, si sporca le mani; indaga Milani sotto vari punti di vista, a partire dalle sue parole e dalle testimonianze di chi l’ha conosciuto. Considera innanzitutto il sacerdote, fedelissimo al Vangelo e alla Chiesa; lo stesso, peraltro, è convinto che i vescovi debbano essere educati dagli stessi fedeli, più “esperti” di loro del mondo. Viene poi la scelta dei poveri, amati profondamente da don Milani nel loro essere persone concrete e carnali; un amore che porta l’uomo di Chiesa a porsi decisamente, operativamente a fianco degli sfruttati, a dispetto delle sue origini. E anche, ovviamente, a dispetto della posizione diversa della gerarchia ecclesiastica.
Una scuola senza confini
L’analisi di Cristofanelli, in ogni caso, si concentra soprattutto della “scelta della scuola” da parte di don Milani; una scelta che, peraltro, conosce un’evoluzione, leggibile attraverso le lettere alla madre e agli amici. Dalla “scuola convenzionale che farebbe ogni prete di campagna” si passa gradualmente a qualcosa di più. L’istruzione emerge come “l’unica alternativa per la difesa dei poveri e per il conseguente smantellamento dei ricchi e di coloro che abusano del potere”; e se a San Donato l’appuntamento è serale e settimanale, a Barbiana si fa quotidiano e totalizzante.
A essere coinvolti non sono più i giovani lavoratori, ma ragazzini e adolescenti; la ricreazione fine a se stessa è bandita (come scritto in Esperienze pastorali); l’istruzione è perseguita come presupposto necessario della piena cittadinanza e della coscienza politica. Non sono soluzioni universalmente adatte, ma quelle che il tempo e la condizione di Barbiana suggeriscono. E’ una scuola senza limiti e senza confini (perché coincide con l’educazione della persona) e poco legata ai libri di testo; scritti da una società autoritaria e repressiva, possono fare danni, quindi è meglio usare altri strumenti (a partire dai quotidiani da leggere e vivisezionare). è una scuola “politica”, perché richiede che lo studente conosca i problemi degli uomini, se ne interessi e prenda posizione.
Una scuola, da ultimo, fondata sul Vangelo e, ancor più, sulla Costituzione; proprio poggiandosi saldamente su quest’ultima, riesce a essere aconfessionale, benché il maestro porti la tonaca (e pur risultando irripetibile). Anche per questo, è possibile discutere, crescere, scrivere insieme. E tra coloro che imparano può esserci lo stesso maestro, se i suoi studenti sono in grado di metterlo in discussione; per don Milani è “meraviglioso da vecchi prendere una legnata da un figliolo, perché è segno che quel figliolo è già un uomo e non ha più bisogno di balia”.
Don Milani, pedagogia del dialogo
Espressamente di indagare e far conoscere i risvolti pedagogici dell’agire di Milani, peraltro, si occupa da tempo Edoardo Martinelli, uno dei suoi allievi a Barbiana. Giusto dieci anni fa, Martinelli – che ora è tra gli animatori del Centro ricerca e formazione don Lorenzo Milani e Scuola di Barbiana di Vicchio – ha pubblicato con la Società Editrice Fiorentina il libro Don Lorenzo Milani. Dal motivo occasionale al motivo profondo (164 pagine); lì si parla a fondo del “maestro” di Barbiana, a partire da molte esperienze vissute in prima persona.
E’ categorico Martinelli quando scrive che occorre rifuggire convintamente chi bolla il “modello Barbiana” come “improvvisazione”, “laboratorio povero” e fonte di un dannoso “egualitarismo senza gratificazione”; allo stesso modo, l’autore invita a non mitizzare quell’esperienza, con l’evidente rischio di trasformarla in proposte impossibili da (ri)applicare. Occorre uno sguardo diverso, più attento. Don Milani non propose mai di imparare dalla vita perché da una scuola diseducante si ricevono danni più che benefici; egli “credeva in una scuola capace di dare gli strumenti materiali e logici, necessari all’apprendimento”, perfettamente inserita nel suo territorio.
Il tempo della scuola dovrebbe essere quello degli alunni, non spinto dalla necessità; il contrario, insomma, dell’assillo continuo del programma ministeriale da completare. Quanto al luogo, oltre a quello fisico in cui ci si incontra, si insegna e si impara, c’è quello ideale; si tratta di una soglia, di una zona limite, tra passato e futuro, tra regole esistenti e regole sperate. Martinelli ricorda facilmente il passo della Lettera ai giudici, in cui don Milani parla della scuola come “l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità […], dall’altro la volontà di leggi migliori cioè il senso politico”. Una situazione in cui, evidentemente, l’esercizio della ragione critica è essenziale.
Un progetto in tre fasi
Non teste da riempire di contenuti, dunque, ma persone cui dare i mezzi per esprimersi e trasmettere – portare fuori, educere, che somiglia tanto all’educare – la propria cultura. Quei mezzi a Barbiana vengono dati partendo da elementi occasionali, da ogni “piccolo elemento della realtà catapultato dentro la scuola”; un articolo di giornale, un episodio inatteso possono scatenare riflessioni, approfondimenti che portano al cuore di un argomento.
Martinelli riconosce tre fasi del pensiero e del progetto educativo di don Milani. La prima è legata all’esperienza familiare e della formazione, avvenuta in casa e poi a scuola; il futuro sacerdote passa da mura privilegiate, “intelligenti, ma anche ipocrite e non più protettive” a quelle di una scuola votata al regime, che prepara più soldati che cittadini. La seconda arriva a San Donato di Calenzano, con l’esperienza a contatto con “le miserie materiali e spirituali della gente del luogo”, che non ha tempo di ricrearsi perché deve combattere per sopravvivere. Convinto che Dio parli nella realtà, nella storia e non nella Storia, don Milani vedrà per i preti il ruolo di “uomini che instaurano la Comunità”, anche in contrasto col sistema vigente; ad esempio, a Calenzano toglie il crocifisso dall’aula in cui insegna per includere tutti.
All’ultima fase, a Barbiana, vengono “eliminati pulpiti e cattedre”, la forma è piuttosto circolare; si lavora su progetti d’utilità comune (dalla formazione all’acquedotto, dalla strada da finire ai laboratori aperti alla gente), si fa lezione dalle 8 alle 20 e oltre. Si apprende – e si insegna – dalla realtà, da ciò che si vede; Martinelli parla di “pedagogia dell’aderenza”, che si fonda sullo sguardo d’insieme, non ha compartimenti stagni; ci si lascia condurre dove le parole incontrate e la loro origine portano. Un dialogo e un confronto continuo, dunque, col mondo, oltre che tra maestro e allievi; ne è un esempio illuminante la scrittura collettiva, cui l’autore dà spazio, anche attraverso il carteggio di Milani con Mario Lodi, figura fondamentale della pedagogia. Tutto questo dovrebbe servire, secondo Martinelli, a cambiare la scuola di oggi, troppo lontana dalla realtà; l’attenzione ai contenuti più che alle persone resta il problema centrale.
A lezione da don Milani
Certo, il racconto delle lezioni di Lorenzo Milani non equivale alle lezioni stesse; chi vi ha assistito può trasmetterne il clima, ma non è come essere stati lì. Forse il modo più diretto per riviverle è leggere Una lezione alla scuola di Barbiana (79 pagine). Il volumetto fu pubblicato nel 2004 dalla Libreria Editrice Fiorentina, la stessa di Esperienze pastorali e Lettera a una professoressa; l’organizzazione per il carnevale del 1965 di un ballo a scuola diede l’occasione per un dibattito con alcune ragazze, che si trasformò in lezione.
Altrettanto interessante, peraltro, è vedere don Milani alle prese con l’insegnamento tipico dei sacerdoti, il catechismo; anche in quel caso ci si trova di fronte a qualcosa di singolare, da approfondire. E’ possibile farlo sfogliando Il Catechismo di don Lorenzo Milani (238 pagine); il libro, pubblicato sempre da Lef nel 1983, riguarda il periodo di apostolato a Calenzano.
Tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50 era ampiamente in uso il Catechismo maggiore di san Pio X; quelle domande e risposte da imparare a memoria (“Chi è Dio? Dio è l’Essere perfettissimo, Signore del cielo e della terra”) erano tanto dotte, quando incomprensibili per i bambini. Milani lavorò così a un altro testo, che collegasse la dottrina alla storia sacra (spesso trascurata), rispettandone l’ordine cronologico; lo fece, tra l’altro, anticipando la scrittura collettiva, creando una “vita di Gesù” con un collage dei riassunti delle sue lezioni fatte dagli alunni.
Poco dopo, ancora da cappellano a Calenzano, il sacerdote mise per iscritto quasi tutte le lezioni del “suo” Catechismo. Il linguaggio era chiaro e diretto, gli inviti alla lettura e alla riflessione molti; non mancavano i riferimenti alla carta della Palestina, da Milani usata anche in chiesa per spiegare meglio le vicende raccontate.
La scrittura del Catechismo fu abbandonata già prima dell’esilio a Barbiana; lo stesso don Milani, anche nell’ultima fase della sua vita, considerò immaturo e superato quel lavoro. Eppure, tanto la “vita di Gesù” quanto il Catechismo – con gli altri documenti pubblicati nel libro – dicono molto sul suo modo di intendere la scrittura e la lezione.
Tracce negli allievi
Chi ha partecipato a lungo alle scuole di don Milani, come allievo o come collaboratore, ne è rimasto segnato; in molti lo hanno dimostrato con le loro vite, il loro agire, impegnandosi e “sporcandosi le mani”. Lo provano i libri già visti degli ex allievi Michele Gesualdi ed Edoardo Martinelli; lo prova anche chi ha preso vie meno legate a vivificare la memoria del maestro. E’ il caso di Francesco Gesualdi (fratello minore di Michele), il più avvezzo alla scrittura tra gli allievi del sacerdote.
Dopo gli studi a Barbiana, “Francuccio” si è occupato soprattutto di economia; l’ha fatto però non dal lato dei “mercanti”, bensì da quello degli “ultimi” e del pianeta, vittime dell’economia selvaggia. Non stupisce che lui abbia creato – con Alex Zanotelli – la Rete Lilliput; ancor meno sorprende che abbia fondato il Centro nuovo modello di sviluppo, partendo da una domanda semplice e disarmante (“come mai un mondo tanto ricco produce tanta povertà?”) e cercando di trovare risposte e soluzioni concrete, applicabili nel quotidiano.
L’azione è in continuità con quanto appreso a Barbiana; lo stesso emerge nei tanti libri scritti da Francesco Gesualdi. Uno degli ultimi, Risorsa umana. L’economia della pietra scartata (San Paolo, 2015, 2013 pagine) traduce bene il messaggio e il metodo di Milani. All’economia dei mercanti, basata su accumulo e crescita illimitata, l’autore contrappone l’economia della qualità, rivolta innanzitutto alle persone, nella loro concretezza; lo fa con uno stile asciutto, essenziale, offrendo a sostegno delle sue tesi esempi e cifre.
Impossibile non leggere in filigrana la lezione di Barbiana nel voler fornire al lettore dati e notizie difficilmente riportati altrove; è biblico – in linea col magistero di papa Francesco – definire le persone poste ai margini dell’economia mercantile come “pietre scartate” (immagine dei Salmi), pietre da cui ripartire per costruire un mondo meno ingiusto. Serve una svolta globale, innescata da gesti alla portata di tutti che ridiano valore al fai-da-te e alla comunità. Applicando, inevitabilmente, la lezione di Lettera a una professoressa: “ho imparato che il problema degli altri è eguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”.
Mazzolari e Milani, l’urgenza dell’agire
Alla figura di don Lorenzo Milani è accomunata quella di don Primo Mazzolari; il passaggio del pontefice prima a Bozzolo e poi a Barbiana ha evidenziato una vicinanza che, in realtà, si poteva leggere da tempo. I due preti furono in contatto, il quindicinale diretto da Mazzolari – Adesso – ospitò il primo scritto pubblico di Milani (Franco, perdonaci tutti: comunisti, industriali, preti, 15 novembre 1949) e altri testi successivi. “In entrambi i sacerdoti era vivo il senso dell’urgenza dell’agire“, scrive Federico Ruozzi nel Meridiano citato sopra; i due ministri di Dio condivisero anche la sofferenza per essere stati puniti a ripetizione dalla gerarchia cattolica del tempo per le loro posizioni sulla pace, sull’obiezione di coscienza e su temi sociali.
La vita di don Mazzolari oggi risulta meno nota rispetto a quella del sacerdote toscano. Per conoscerla meglio, si può iniziare dalla biografia Don Primo Mazzolari parroco d’Italia (EDB, 2014, 188 pagine); l’ha scritta don Bruno Bignami, a capo di una parrocchia della diocesi di Cremona, nonché della fondazione intitolata al sacerdote. Il libro si giova, tra l’altro, di una bella prefazione di monsignor Giancarlo Bregantini, arcivescovo metropolita di Campobasso-Boiano; è lui stesso ad affiancare, tra i suoi ispiratori, proprio Mazzolari e Milani (assieme a David Maria Turoldo, altra figura religiosa preziosamente inquieta che ha incrociato la Chiesa fiorentina negli anni di Milani e di Giorgio La Pira, condividendone il travaglio).
Don Mazzolari fu parroco per oltre dieci anni a Cicognara e per ben ventisette anni a Bozzolo, due piccoli paesi della diocesi di Cremona (ma della provincia di Mantova). Per Bignami, tuttavia, lui ha fatto ben di più: “ha interpretato il suo ministero oltre i confini ristretti di una comunità parrocchiale non per cercare fama altrove, ma per vocazione. Detto altrimenti, per servizio”. E’ stato così in prima linea, al fianco della gente, non solo quella delle sue terre; l’ha fatto prima come cappellano militare, poi come antifascista, resistente e costruttore di pace, nonché come predicatore in varie parti del paese. Tutto questo, secondo l’autore, ha fatto guadagnare a Mazzolari il titolo di “parroco d’Italia”.
Educare e ricostruire
Archiviata con dolore la posizione interventista del primo conflitto mondiale (vissuta da cappellano accanto ai soldati), dal 1920 don Mazzolari matura una netta ripulsa verso ogni guerra, investendo sul valore dell’accoglienza e dell’educazione. Lo fa nella prima lunga esperienza a Cicognara, lo rende ancora più concreto a Bozzolo. Punta sull’ecumenismo e sul dialogo tra cristiani già negli anni ’30; nel 1935 subisce la prima reprimenda del Sant’Uffizio per l’opera La più bella avventura, che comprende gli erranti nonostante i loro errori. Vive la Resistenza da militante, mettendosi in gioco e pagando di persona con l’arresto e la clandestinità; nel contempo, sente forte l’impegno a ricostruire il paese, esercitando (parole di Bignami) “la fantasia della carità”.
A guerra finita, Mazzolari mette lo stesso impegno per pacificare gli animi, superando ogni sete di vendetta e rivalsa. Fonda il quindicinale Adesso, che “sostiene, pungola, critica, propone, interpreta gli eventi alla luce del vangelo, commenta, spinge all’azione”; di fatto, è il contributo del sacerdote al rinnovamento del paese, a costo di non fare sconti alla Dc. La testata, non a caso, finisce spesso nel mirino delle autorità ecclesiastiche.
Il continuo impegno a favore delle comunità, la denuncia delle ingiustizie, gli sforzi per la pace, suggeriscono a don Bignami che il parroco di Bozzolo ha natura profetica; con tanti profeti, peraltro, condivide una sorta di persecuzione, che non spegne l’amore per gli altri. “La sua vita – precisa l’autore – è un dramma che non si limita a denunciare le contraddizioni di un tempo storico, ma ne porta il peso. La biografia risulta segnata da ciò che annuncia. È il valore della testimonianza”.
1955: Tu non uccidere
Se la produzione pubblica di don Milani è stata ridotta, altrettanto non può dirsi di quella di don Mazzolari; l’opera omnia del sacerdote, tutta disponibile per le Edizioni Dehoniane Bologna, conta oltre 15mila pagine. Non esiste un volume che raccolga tutti gli scritti; occorre dunque scegliere nella cinquantina di titoli presenti nel catalogo. Tra i più significativi, occorre prendere Tu non uccidere, uscito nel 1955 e riedito due anni dopo, sempre anonimo; nel 2015 Edb ne ha messo in commercio un’edizione critica (200 pagine), curata da Paolo Trionfini.
Il tema dell’obiezione di coscienza era già stato anticipato nel 1941 (nella Risposta ad un aviatore), concludendo per il primato dell’obbedienza a Dio se i suoi comandamenti contrastano con quelli umani. In Tu non uccidere, tuttavia, è contestualizzato in un testo denso che ribadisce il primato della coscienza e supera teologicamente la teoria della “guerra giusta”. Il libro mette in luce la potenza del comandamento “non uccidere”, profondamente radicato nelle Beatitudini; alla luce di queste, non esiste alternativa cristiana alla giustizia (e alla denuncia della sua mancanza), alla pace e al rifiuto della violenza.
Dieci anni prima della Lettera ai cappellani militari di don Milani, da don Mazzolari erano arrivate parole nette sugli obiettori; in quel decennio, tuttavia, certi italiani e la gerarchia ecclesiastica non erano maturati abbastanza. Ora, finalmente, possiamo dire – con papa Francesco – che i profeti, quello di Bozzolo e quello di Barbiana, avevano ragione; non sono stati esauditi del tutto, ma qualcuno in più li ha ascoltati, per fortuna.