Synecdoche, New York, l’eterno gioco delle parti tra vita e arte
“Io sto morendo e così anche voi. Stiamo tutti andando incontro alla morte, anche se per il momento siamo ancora qui, vivi. Ma ognuno di noi sa che deve morire, anche se nel suo profondo crede di no”. In questa frase è riassunta la poetica di Caden Cotard, affermato regista teatrale interpretato da Philip Seymour Hoffman in Synecdoche, New York il film di Charlie Kaufman approdato in sala in questi giorni.
Cotard vive con Adele (Catherine Keener), la moglie artista, e la figlia Olive a Schenectady (NY), dove dirige il teatro locale. L’equilibrio familiare scricchiola probabilmente già da tempo, così la donna si trasferisce senza di lui a Berlino, dove è attesa per un’importante personale. L’uomo invece fa i conti con una misteriosa malattia difficile da identificare con chiarezza: si tratta di (p)sicosi o piuttosto di paranoia (Cotard è infatti il nome di un disturbo psichiatrico caratterizzato dalla credenza delirante di essere morti)? Il corso degli eventi comincia a mutare quando il regista conosce la bigliettaia Hazel (Samantha Morton), esuberante … e infiammata di passione, con cui allaccia una breve e altalenante frequentazione.
Nel frattempo la consacrazione del suo talento è coronata dall’assegnazione del premio MacArthur, che consiste in un sostanziosi assegno che gli offre, finalmente, l’opportunità di realizzare il suo più ambizioso progetto artistico: mettere in scena la propria vita attraverso una ricostruzione minuziosa (e maniacale) anche dal punto di vista scenico. Inizia così un estenuante lavoro di scavo e rappresentazione in cui arte e vita s’intrecciano e mescolano, ora sovrapponendosi, ora mostrando tutti i paradossi del loro inevitabile divergere. C’è l’attore alto e dinoccolato (Tom Noonan) che interpreta Caden, l’alter ego di Hazel (Emily Watson), e innumerevoli altri personaggi a interpretare figure realmente esistenti.
L’allestimento teatrale mima, insegue, e talvolta supera la vita, Caden e gli altri subiscono l’inevitabile scorrere del tempo, ma nella messa in scena niente è lasciato al caso, tutte le variabili sono previste, perché “la fine è costruita nell’inizio. Ma che cosa ci puoi fare?”.
In Synecdoche, New York Charlie Kaufman si misura per la prima volta con il ruolo di regista, dopo una carriera da sceneggiatore che gli è valsa numerosi apprezzamenti (suoi sono infatti gli script di Essere John Malkovich, Confessioni di una mente pericolosa e Se mi lasci ti cancello). Il titolo del film, che è una crasi tra il nome della città e la figura retorica della sineddoche (“una parte per il tutto”), indica già, chiaramente, l’intento perseguito: rappresentare un numero incredibile di acrobazie narrative, affrontando molteplici questioni tra loro collegate: la depressione, il rapporto con la morte e con il corpo, la schizofrenia e la coazione a ripetere, il concetto stesso di cinema e di teatro.
La figura di Caden ha una forte matrice pirandelliana, con la sua ossessione di controllare e determinare il corso della propria vita così come fa con gli attori. Quando poi la distanza tra esistenza e arte si azzera, s’innesca un gioco di specchi e raddoppiamenti stimolante ma, a tratti, distruttivo, che rimanda a temi come l’estraneazione e l’abbandono, “minacce” sempre più concrete e tangibili in una società ormai monopolizzata dagli avatar, e in cui i social network giocano un ruolo decisivo. In tal senso Synecdoche, New York ha anticipato qualcosa che era ancora in fase embrionale, se si pensa che il film è stato girato nel 2008, ed è quindi arrivato in Italia con sei anni di ritardo, il che rende lecito il sospetto che si sia voluta sfruttare l’onda emotiva innescata dalla scomparsa di Hoffman, avvenuta lo scorso febbraio.
L’interpretazione dell’attore si caratterizza per intensità e generosità: la sua capacità di piegare il corpo, in ogni muscolo, a specifiche esigenze interpretative è stata (e resta) fuori dal comune. Hoffman restituisce con straordinaria autenticità le montagne russe emotive percorse da Caden, rendendo il personaggio incredibilmente vibrante e umano agli occhi dello spettatore.
Il film, pur presentando alcuni aspetti lacunosi (ad esempio, la ridondanza nella seconda parte) merita di esser visto, perché riesce a mescolare abilmente dramma e note ironiche, senza che il passaggio dall’uno all’altro registro sia percepito come forzato. In alcuni frangenti l’effetto “matrioska” tra vita e finzione è probabilmente difficile da seguire, ma vale comunque la pena provarci, in quanto la storia è densa, e offre numerosi piani di lettura, consentendo quindi a ciascuno di scegliere il proprio. Infatti, come ha scritto Fabio Ferzetti nella sua recensione, «Synecdoche, New York resta (volutamente?) oscuro e faticoso come il suo titolo, che non verrà mai spiegato. Ma a una seconda visione le sue maglie si allargano, e il minuzioso realismo quotidiano con cui Kaufman dà vita a questo universo che funziona come un sogno diventa la chiave per capire il senso del film […] La cosa più sconcertante, per lo spettatore, è che tutto questo non genera un universo fantastico e visionario come, poniamo, nei film di David Lynch, altro grande esploratore dei labirinti della psiche, ma un realismo banale e quasi dimesso […] a Caden presto non basta più il teatro per riprodurre e domare la vita ma ha bisogno di un’intera città, ricostruita in scala uno a uno in un immenso magazzino abbandonato. A questo punto però abbiamo capito. Non è della sua vita che parla, ma di quella di chiunque di noi».