Tetto agli stipendi: il Parlamento tratta con 25 sindacati
Parlamento e spending review. Proprio ieri l’ufficio di Presidenza della Camera ha annunciato un taglio ai costi, tra lo stop all’affitto di Palazzo dei Marini e il ridimensionamento del trattamento di fine rapporto per ex deputati e dipendenti, stimato in 30 milioni di euro a partire dal 2015. Un risparmio complessivo di 138 milioni di euro in due anni per Montecitorio.
Di questa ghigliottina, che dovrebbe abbattersi sulle risorse a disposizione della Camera e su cui dovranno esprimersi gli stessi deputati, quando il prossimo 21 luglio saranno chiamati a votare il bilancio pluriennale di Montecitorio, non fa parte la misura del tetto agli stipendi, fissato dal governo Renzi. Il tetto di 240 mila euro lordi alle retribuzioni, in vigore da maggio per tutti i dirigenti pubblici, in forza del decreto legge 66 del governo non è valido, infatti, né alla Camera né al Senato. Come riporta stamani il Corriere della Sera, affinché tale norma possa essere applicata anche agli stipendi dei componenti dei due rami del Parlamento, c’è bisogno di una “decisione autonoma” delle due camere. A Palazzo Madama così come a Montecitorio vige, infatti, l’autodichia: secondo quanto disposto dall’art.64 della Costituzione, Camera e Senato hanno una competenza privilegiata, esclusiva e autonoma sullo status giuridico ed economico dei propri dipendenti, che viene disciplinato attraverso atti interni, non modificabili dalle leggi dello Stato. Affinché, dunque, il tetto previsto dalla nuova disciplina della PA possa essere applicato anche a deputati, senatori e dipendenti delle due Camere, è necessario che i parlamentari deliberino in tal senso.
Ma, secondo indiscrezioni, i dipendenti di Camera e Senato sarebbero già pronti alle barricate. L’introduzione del tetto di 240 mila euro comporterebbe un taglio considerevole della retribuzione per almeno il 40% del personale, calcola il Corriere. L’applicazione di tale misura, che ad esempio andrebbe ad interessare 88 consiglieri alla Camera, dovrebbe implicare anche anche nuovi parametri per tutte le fasce retributive. Se così non fosse ci si ritroverebbe di fronte a un paradosso: il segretario generale potrebbe percepire quanto un documentarista o un tecnico. Perciò “per mantenere le giuste proporzioni – ipotizza il Corriere – se il segretario generale, che oggi prende circa 480 mila euro lordi, dovesse scendere a 240 mila, dovrebbero essere messi dei tetti a scalare per le qualifiche inferiori”. Un’ipotesi, questa, che non piace affatto ai dipendenti. Oltre all’ostacolo autodichia, dunque, il Parlamento si troverà a gestire la trattativa con le sigle sindacali che tutelano i lavoratori delle due camere: undici i sindacati a Montecitorio e quattordici a Palazzo Madama, per un totale di circa 2.22o dipendenti.
Al momento i negoziati sembrano essere ad un punto morto: due riunioni e un nulla di fatto. Alla Camera, la vicepresidente del Cap (Comitato per gli affari del personale), la democratica Marina Sereni, e Valeria Fedeli (Pd) per la Rappresentanza Permanente al Senato sono intenzionate a risolvere la questione prima delle ferie agostane. Ma, ad oggi, non esiste ancora una bozza da discutere con i sindacati e gli incontri preliminari non hanno prodotto alcun accordo. La partita è importante e vede contrapporsi due fazioni: una che spinge verso l’introduzione del tetto al netto degli oneri previdenziali e delle indennità; l’altra, capeggiata dal M5S, per la quale “il tetto deve essere onnicomprensivo, altrimenti si realizza un aggiramento dello stesso” spiega Riccardo Fraccaro, componente pentastellato del Cap. Una vicenda, dunque, destinata a protrarsi ancora per giorni con i parlamentari impegnati in una delle sfide più impegnative: l’auto-riduzione dei compensi e la razionalizzazione dei costi interni. Un banco di prova significativo per la tanto annunciata spending review.
Carmela Adinolfi