Indipendenza Catalogna: tra legalità e legittimità – DAL BLOG
Non poteva che essere l’argomento del mese. Già tempo fa, sulle pagine virtuali del Termometro, affermammo che Carles Puigdemont sarebbe stato uno dei protagonisti indiscussi di questo 2017. Il presidente della Generalitat ha marciato con fermezza verso il referendum del primo d’otttobre. Per mesi, né il governo catalano, né il governo centrale, hanno voluto riconoscere la legittimità della controparte. Un limite invalicabile che ha reso impossibile qualsiasi tipo di progresso nelle negoziazioni. Come si evince dalle più elementari basi sulla negoziazione e mediazione politica, il primo passo è il riconoscimento dell’altro. In questo caso, né Puigdemont, né Rajoy, hanno legittimato l’avversario.
Nell’assordante assenza del dialogo, i colpi della repressione del referendum hanno fatto il giro del mondo e hanno sentenziato delle domande di difficile risoluzione. È giusto reprimere con la violenza un diritto centrale – secondo la democrazia liberale – come quello del voto, seppur dichiarato illegale? Fino a che punto può, la legge, sottomettere la volontà della popolazione? Fin dove è legittimo il ricorso alla fermezza della legalità?
Catalogna: lo stato di diritto contro il fondamento democratico
La questione catalana gira attorno alla tensione tra legalità e legittimità. Proprio lo stato di diritto, la centralità della certezza della legge in uno Stato democratico e la normativizzazione di tutti i processi politici, danno ragione al governo centrale di Mariano Rajoy. La unidad no se puede quebrantar. L’unità non si può rompere. Così recita l’art. 2 della Costituzione spagnola. Un dogma normativo ripreso dallo stesso Rey Felipe VI, che si è schierato apertamente contro il Govern catalano. Una dichiarazione – quella del Re – che ha legittimato il governo dei popolari ad applicare l’art.155 della Costituzione. Ovvero: L’esecutivo potrà agire coercitivamente contro il governo autonomico. reo di attentare gravemente contro l’interesse nazionale.
La demonizzazione di Puigdemont colpisce l’intera Catalogna
Puigdemont simboleggia – secondo la narrativa del governo di Madrid – il maggior rischio per la democrazia spagnola degli ultimi 40 anni. Nemmeno il gruppo terroristico basco, ETA, era riuscito a incutere tanto timore alla Moncloa (sede del governo nazionale). I termini, utilizzati in maniera scientifica dal Partido Popular, si inseriscono prepotentemente nella rottura della legalità. “Puigdemont vive fuera de la ley“, affermava pochi giorni fa Soraya Sáenz de Santa Maria, vicepresidente del Governo. Un fuorilegge, un bandito, o un terrorista: Puigdemont è stato demonizzato e, con lui, una schiera di esponenti politici.
L’indipendentismo è terrorismo
Pochi giorni prima della celebrazione del referendum, infatti, dei gruppi dell’antiterrorismo hanno investigato l’operato di molti sindaci catalani e la loro attitudine nei confronti del referendum. Un processo di controllo che, infelicemente, ha inasprito i contrasti anche sul piano sociale. Una parte dei catalani ha reagito con sdegno alle misure cautelari impiegate dal governo della Moncloa. Se i sindaci vengono direttamente eletti dal popolo, e questi vengono indagati dall’antiterrorismo, per la proprietà transitiva coloro che hanno legittimato – attraverso il proprio voto – i governanti locali, possono essere ritenuti complici. Complici di un attentato all’integrità del Paese.
Attentato perpetuato nel tempo, che non necessita di colpi di kalashnikov. L’immagine prodotta dalla narrativa del governo centrale è quella di una Catalogna da domare, rivoluzionaria ma con una nota di disprezzo, intrisa di scetticismo e malessere. E così si evidenzia il paradosso dei manifestanti che affermano che i catalani siano il problema: “che se ne vadano!” Invocando, tuttavia, l’integrità territoriale a tutti i costi. Questo paradosso ha ravvivato un nazionalismo radicale che rivendica l’imposizione dello stato di diritto a tutti i costi. Non c’è spazio per la legittimità: c’è solo la legalità. Si arriva, così, al vero nodo gordiano.
Come si sviluppa l’indipendentismo
In primis, la questione catalana non è mai stata così viva come negli ultimi due anni. Almeno, se ci rifacciamo alla storia contemporanea. I dissapori tra Madrid e Barcellona si sono basati prevalentemente su questioni economiche. Tuttavia, negli ultimi 40 anni – a partire dalla transizione – uan serie di movimenti e partiti hanno operato un lavoro certosino di ri-creazione identitaria. Una Catalogna nuova, distinta, fiera e possibilmente indipendente.
Una narrativa che ha stimolato la fantasia di politici, imprenditori, personalità di spicco. Contestualmente, un gran numero di mezzi di comunicazione di marca catalana hanno fomentato questa narrativa, producendo un’identità catalana che si contrapponesse, necessariamente, a quella spagnola. Tutto ciò è stato possibile grazie anche alle continue concessioni del governo centrale. Gradi di autonomia sempre maggiori che hanno portato a relativizzare – sia in termini pratici-tecnici, sia identitari – la relazione della Catalogna con Madrid. L’ultimo colpo, sotto il punto di vista istituzionale, è stato dato dalle concessioni del governo Zapatero. Nell’accordo raggiunto con l’ex presidente della Generalitat Artur Mas, si parlò esplicitamente di nacionalidad catalana. Correva l’anno 2006. Da allora, una bomba a orologeria è stata piazzata nella Moncloa.
Una propaganda pluridecennale legittima un cambio legale?
Con il cambio di governo – da PSOE a PP – i rapporti tra il governo catalano e il governo centrale si sono raffreddati. Le relazioni si sono fatte via via più tese. Dopo la consulta illegale che promosse lo stesso Artur Más nel 2015, le relazioni tra PP e partiti indipendentisti (facenti riferimento al presidente della Generalitat, Carles Puigdemont) sono crollate.
Gli ultimi due anni hanno visto l’intensificarsi della propaganda indipendentista, mentre il governo centrale lasciava ampi spazi di manovra alla CUP, Junts pel Sí e Esquerra Republicana (partiti di matrice indipendentista). Con ciò, un numero sempre crescente di catalani cominciava a credere nella possibilità dell’indipendenza. Da qui, torniamo al punto cruciale del tema catalano. La sfida tra legalità e legittimità. Se della prima ne abbiamo abbondantemente parlato sotto il punto di vista della narrativa dei popolari, è importante riconoscere il fondamento della controparte.
Di fatti, nonostante si possa moralmente morale discutere sulla narrativa degli indipendentisti, vi è un dato oggettivo che non può essere nascosto: una gran parte di catalani non sente la propria appartenenza a Madrid e dichiara di avere unicamente la nazionalità catalana. Una fetta della popolazione che non è maggioritaria (secondo l’ultimo barometro del CIS, solo il 40% appoggerebbe l’indipendenza) ma che è lì.Una minoranza troppo importante per poter reprimere – senza mezzi termini – le loro istanze.
La necessità di una riforma costituzionale per conciliare legalità e legittimità
Non si tratta dell’accettazione delle istanze di indipendenza di una minoranza, bensì della presa di coscienza di un cambio sociale e culturale che è già avvenuto. È qui che si evince la miopia del governo centrale, incapace di adattare la legge a cambiamenti importanti e forzando una realtà sempre più diversa da quella descritta nella Carta Costituzionale. Accettare la possibilità del cambio (più che il cambiamento stesso) sarebbe un primo grande passo in avanti per la via della riconciliazione. Un lieto finale auspicato dalla gran maggioranza degli spagnoli (compresi i catalani) che, però, non sembra essere presente, sulla sceneggiatura scritta da Carles Puigdemont e Mariano Rajoy.
Alessandro Faggiano
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