I comunisti russi vogliono ancora Zjuganov
In occasione del XVIII Congresso del Partito Comunista della Federazione Russa lo storico leader Gennadij Zjuganov è stato riconfermato alla guida della storica formazione politica. Zjuganov mantiene le redini del partito dal 1993, anno della sua fondazione. Da allora lo ha guidato, tra alti e bassi, attraverso quella realtà magmatica e caotica che era la politica russa post-sovietica. Ma soprattutto Zjuganov ha avuto il delicato compito di guidare il Partito in un processo di ridefinizione identitaria grazie alla quale il Partito Comunista è riuscito a sopravvivere allo stesso comunismo.
Gli anni Novanta, ovvero la regressione momentanea del comunismo
Pur non essendo estraneo al fenomeno delle correnti, il PCFR si fa portavoce di istanze di marxismo ortodosso. Per marxisti ortodossi s’intendono quegli pensatori marxisti che ricusano la strada del riformismo, rimanendo fedeli alla dottrina “ortodossa”, ovvero di Marx e Engels. Concetto cardine di questa dottrina è il materialismo storico, teoria fondata su due postulati. Il primo è che ad ogni epoca storica corrisponde uno specifico ordinamento economico e uno specifico rapporto tra le classi dominanti e quelle dominate. Il secondo è che ogni epoca è destinata a cedere il passo ad un’altra secondo uno schema lineare e progressivo, che vede nel comunismo il suo culmine. E proprio questo è il filtro attraverso il quale i comunisti russi leggono oggi la caduta dell’Unione Sovietica, avvenuta nel 1991. A differenza della lettura tradizionale euroatlantica, il PCFR ritiene che il comunismo non abbia abbandonato la Russia né possa farlo. Poiché esso è il massimo traguardo che il Paese possa raggiungere, il 1991 e gli anni seguenti consituiscono solo una parentesi, un momento di momentanea regressione.
I fattori della regressione
Secondo i comunisti russi, ad avere interrotto il cammino della Russia verso il progresso comunista è stato un complotto ordito da attori endogeni e allogeni. I primi sono stati i riformisti guidati da Gorbacev che, allontanatisi dall’ortodossia, hanno sprofondato l’Unione Sovietica in una crisi sistemica. Il loro programma, riassunto dallo slogan “più democrazia, più socialismo”, ha in realtà aperto le porte alla faziosità e ai conflitti etnici e socio-economici. Ai loro occhi infatti non è un caso che sia stata proprio la leadership di uomini come Boris Elstin, nata in seno a questo programma, a mettere fine all’Unione Sovietica. Tuttavia, tale leadership non avrebbe avuto il successo che ha avuto senza il supporto straniero – e questo ci porta agli attori allogeni. Secondo Zjuganov e i comunisti russi, gli Stati Uniti e i loro partner occidentali avrebbero fornito un importante sostegno ai nuovi politici di Mosca. Essi infatti avrebbero stabilito una vera e propria “quinta colonna” allo scopo di sottomettere la Russia.
Il rapporto con il comunismo sovietico: la componente nazionalista
Proprio l’accento posto sulla contrapposizione tra la Russia e Occidente dice qualcosa di interessante sul rapporto tra il comunismo russo e quello sovietico. Da un lato tale contrapposizione faceva già parte della narrativa sovietica (e non solo) della Guerra Fredda. Inoltre i due comunismi condividono la concezione staliniana del “comunismo in un unico Paese”, secondo la quale gli sforzi e le risorse dei popoli sovietici ieri e del popolo russo oggi sarebbero da destinare all’edificazione del comunismo in patria piuttosto che alla sua esportazione all’estero. I russi tuttavia si sono spinti più in là. Il loro attaccamento al problema dei connazionali che vivono al di fuori della Federazione Russa e a quello del calo demografico in patria fa parte più della retorica nazionalista che del partito internazionalista per eccellenza.
Il rapporto con il comunismo sovietico: la “democrazia del proletariato”
Anche sul ruolo della rivoluzione i due partiti sono in divergenza. I sovietici avevano scelto la strada della violenza per storicizzare il pensiero marxista-leninista. I russi invece non rifiutano la democrazia e sono consapevoli che l’unico modo per riprendere il cammino verso il comunismo passa per il consenso elettorale. Per questo motivo una delle lotte più care a Zjuganov è quella per elezioni libere e trasparenti. Esse sono il primo passo perché il PCFR possa andare al potere e operare una palingenesi dello stato secondo la lezione di Lenin. Proprio in questo, e non nella violenza, consiste l’essenza della nuova rivoluzione.
Una storia di alti e bassi
Le performances elettorali del PCFR, sia in ambito parlamentare che presidenziale, sono riassumibili in quattro fasi. La prima va dalla fondazione e arriva fino ai primi anni Duemila, in concomitanza con l’affermarsi del potere di Vladimir Putin. Si tratta di una fase espansiva, in cui il partito guadagna sì consenso ma non riesce ad ottenere il potere. Alle presidenziali del 1996 Zjuganov riuscì ad arrivare al ballottaggio con il rivale ideologico Boris Elstin, ma lo perse. Alle parlamentari il PCFR si affermò due volte come primo partito (nel 1995 e nel 1999), ma fu sempre all’opposizione, fatta eccezione per una breve finestra temporale. Da poco dopo il 2000 fino al 2007 c’è una fase regressiva in cui il partito perde una decina di punti percentuali sia alle elezioni parlamentari che a quelle presidenziali. Dal 2008 al 2012 si è di nuovo in risalita, anche se contenuta (circa 7-8 punti percentuali). Infine, dopo il 2012 il PCFR è di nuovo in difficoltà. I principali avversari sono stati Boris Elstin in passato e Vladimir Putin oggi.
I Rapporti con il putinismo
Come si è già detto, Putin è un avversario piuttosto temibile. Il fatto che anch’egli, come Zjuganov, possa vantare un’invidiabile carriera nel sistema sovietico rende i rapporti tra i due piuttosto complessi. Da una parte infatti il capo del PCFR è considerato un oppositore storico del putinismo. Molteplici infatti sono state le accuse di brogli elettorali, spesso dai toni piuttosto accesi, che sono state lanciate al Cremlino. I comunisti poi hanno votato contro la Riforma Costituzionale promossa da Russia Unita, il partito di Putin, nel 2020. Tuttavia almeno due sono i punti di convergenza con l’avversario: il nazionalismo e l’antiliberalismo. Quanto al primo aspetto, entrambi i partiti si pongono come difensori dei russi in patria e all’estero. Zjuganov condivide con Putin l’affermazione secondo la quale la caduta dell’URSS sia stata il più grande disastro geopolitico della storia. Particolarmente traumatico è stato che molti russi si sono trovati a vivere da un giorno all’altro in un Paese che non era il loro. Per questo motivo, ad esempio, il PCFR è favorevole all’annessione della Crimea e auspica la stessa soluzione per il Donbass. Nel secondo caso, entrambi sono piuttosto diffidenti nei confronti del liberalismo. Esso appare come un sistema che poco ha a che fare con la tradizione russa e come uno strumento di soft power delle potenze occidentali a danno della Russia.