Le guerre più cruente sono quelle che mietono vittime silenziose. Così, a volte la fine di un amore diventa terreno di massacro, non (sol)tanto per i componenti della coppia, quanto piuttosto per quelli che sono il frutto di quell’unione, e cioè i figli. Questo è il tema al centro di Quel che sapeva Maisie, il film di Scott McGehee e David Siegel uscito lo scorso 26 giugno.
Maisie (Onata Aprile) ha sei anni, e si ritrova, suo malgrado, a diventare “l’oggetto del contendere” al momento della separazione dei genitori, ciascuno dei quali è trincerato dietro un muro di narcisismo e rancore vendicativo. Susanna (Julianne Moore) , la madre, è una rockstar totalmente concentrata su una carriera di cui non accetta il declino, e Beale, (Steve Coogan), il padre, è un mercante d’arte alla perenne ricerca di un’occasione capace di cambiargli la vita. Pur di rendersi reciprocamente la vita impossibile, i due sono disposti a tutto, anche usare la piccola come “scudo” nel loro fuoco incrociato. Eppure, il caso offre a Maisie l’occasione di conoscere e vivere un’altra variante dell’affetto familiare, e proprio con le persone meno probabili: Margo (Joanna Vanderham), babysitter prima, ora nuova moglie di papà, e Lincoln (Alexander Skarsgard), il barista sposato per ripicca da Susanna. E allora chissà che Maisie non riesca a sfuggire al calvario che le si era profilato davanti …
Quel che sapeva Maisie è la libera trasposizione in chiave moderna dell’omonimo romanzo del 1897 di Henry James. La vicenda è narrata dal punto di vista di Maisie, su cui la cinepresa focalizza il suo sguardo, rappresentando il crescendo di sofferenza a cui due genitori fin troppo immaturi la costringono. L’intento di McGehee e Siegel è quello di raccontare/denunciarel’assurda crudeltà scaturita dalle dinamiche perverse che a volte accompagnano la separazione di due persone. Perché, se si è accecati dal bisogno di scaricare tutte le colpe (o meglio, le responsabilità) del fallimento di coppia sull’altra persona, basta un attimo per cancellare con un colpo di spugna ciò che ha unito. Nasce da qui il paradosso per cui, ciascuno dei due genitori ha la pretesa di agire per il bene dei figli, senza tuttavia preoccuparsi minimamente dello stillicidio (e degli strascichi futuri) a cui li condannano, con i continui attacchi al’ex. Così, l’unica persona (fin troppo) matura della (ex) famiglia è la piccola Maisie, i cui occhi, a dispetto degli abbandoni subiti dai cosiddetti grandi e dei loro capricci, restano limpidi, e straordinariamente eloquenti. In tal senso, l’interpretazione della piccola Onata Aprile è senza dubbio notevole, e sostanzialmente convincenti risultano anche “gli adulti”, su cui spicca Julianne Moore, alla quale spetta l’ingrato compito di dare corpo (e spessore) a una figura materna affettuosa ma egocentrica e instabile.
Nonostante l’interessante chiave di lettura su cui il film è stato impostato, scorrendo nella parte iniziale con una certa fluidità, la storia si sbilancia strada facendo, come fa notare Elena Pedoto. «Scott McGehee e David Siegescelgono di ritrarre la tematica della separazione inquadrando il silenzio del punto di vista bambino e contrapponendolo al frastuono, al caos e all’estrema irrazionalità del mondo adulto. Nella prima parte del film vengono gettate le basi di questo contrasto, e la frenesia di un mondo adulto incapace di ascoltare entra lentamente in rotta di collisione con la pacatezza e il doloroso tentativo di metabolizzazione della piccola grande Maisie, vero pregio e cuore del film. Ma se da un lato lo sguardo, la disperata ricerca d’affetto di Maisieriescono a restituire l’estrema insensatezza e crudeltà di tutto ciò che sottende a una separazione immatura, è l’ingranaggio dell’impianto narrativo (soprattutto nella seconda parte del film) a mancare delle giuste tempistiche in grado di favorire la metabolizzazione della tematica affrontata. È infatti l’estremo precipitare e l’eccessivo intrecciarsi di situazioni e storie a togliere aria e spazio di riflessione al mondo di Maisie e alla sua disperata ricerca di un punto di riferimento. A mancare ai fini di una maggiore compiutezza filmica è dunque l’equilibrio tra la messa in scena della profondità e la superficialità/immaturità adulta, rappresentate più che altro attraverso una frenesia situazionale che in fin dei conti non aggiunge nulla a quel senso ovattato di spaesamento e perdita invece profondamente legati alla dolce e un po’ tragica figura di Maisie».
Sebbene la storia proceda “a corrente alternata”, merita di esser vista, sia per i pregevoli contributi del cast, sia perché offre “il pretesto” di riflettere su un tema che, purtroppo, non perde mai d’attualità, dando allo spettatore l’opportunità di guardare gli eventi da un punto di vista inedito e non opportunamente considerato. Troppo spesso, infatti, i bambini vengono trattati come oggetti, e non come soggetti, o meglio, protagonisti – quali sono – di una rottura genitoriale. Per questo, dopo aver visto il film, sarà difficile dimenticare quello che dicono gli occhi di Maisie.