Ci sono giocatori, in tutti gli sport, controversi, particolari, che se vogliamo semplificare al massimo il concetto, o si amano o si odiano. Charles Wade Barkley è probabilmente l’espressione più elevata di questa categoria, anche in quella variegata e variopinta giungla che è la NBA. Parliamo infatti di un giocatore che in campo ha fatto da sempre dell’aggressività e dell’esuberanza fisica il suo marchio di fabbrica, arrivando più di una volta alle mani con gli avversari di turno, e chissenefrega se, rispetto al suo metro e novantacinque scarso, personaggi come Bill Laimbeer o Shaquille O’Neal sembrassero degli autentici giganti. Nel petto di “Chuck”, o “Sir Charles”, come veniva chiamato, batte da sempre un cuor di leone, di un guerriero vero. Non si potrebbero spiegare altrimenti la sua storia e la sua carriera, che pur se concluse senza l’onore massimo di un titolo NBA, lo hanno elevato nell’olimpo dei più grandi. Parole suffragate completamente dai fatti, se si pensa che venne eletto tra i cinquanta migliori giocatori di tutti i tempi, nel 2006 è entrato nella “Naismith Basketball Hall of Fame” per la sua carriera, e nel 2010 come membro del Dream Team. E il tutto condito da una condizione di base assolutamente anomala e potremmo dire unica nel suo genere: Charles Barkley era un ciccione. (Oh, non sono solo parole mie..)
Nato a Leeds, Alabama, il 20 febbraio 1964, Charles si iscrive alla locale High School, tenta di entrare nella squadra di pallacanestro ma viene tagliato brutalmente. 1,78 per 100 chili di peso, non fa al caso dell’allenatore. Madre natura però ogni tanto ci mette del suo, e così nell’estate gli regala quindici centimetri di crescita verticale, ed improvvisamente abbiamo qualcosa di simile ad un giocatore di basket. Il passaggio da escluso a titolare è repentino, e ben supportato da cifre clamorose che scollinano oltre i 19 punti e sfiorano pure i 18 rimbalzi per sera. Ciononostante nessuno scout dei college se lo fila minimamente. La sera della semifinale sono tutti lì per vedere Bobby Lee Hurley, la stella della ben più quotata Alabama HS, che vincerà la partita per manifesta superiorità, ma che rispetto al paffuto avversario crollerà nelle preferenze. Barkley infatti gli rifila 26 punti sul groppone, ed un assistente di Sonny Smith, coach della Auburn University, dirà di lui: “Un ciccione (appunto)… che va come il vento”.
Avete già indovinato dove andrà al college il nostro protagonista.
Al college di Auburn resta tre anni giocando, pur essendo troppo basso in teoria per il ruolo, come centro. Il problema (per gli altri) è che è talmente grosso che non lo sposti neanche col caterpillar, ed in più questo salta e si butta su tutto quello che passa sotto i tabelloni. Vince per tre anni il titolo di miglior rimbalzista della sua conference, riscrive il record di percentuale dal campo con un clamoroso 62,6% e nell’unica apparizione al torneo NCAA mette a referto una prestazione da 23 punti, 17 rimbalzi, 4 assist, 2 recuperi e 2 stoppate. La sua energia, le sue galoppate a tutto campo dopo un rimbalzo concluse con tremende schiacciate, e la sua faccia paffutella, lo rendono il re delle folle che lo vanno a vedere. Per la soluzione ai problemi di peso invece, ancora non ci siamo del tutto, se è vero che narrano le leggende che una sera si sia fatto anche recapitare in panchina una pizza farcita. DURANTE una partita, chiaramente. Lo soprannominano “the round mound of rebound”, un poco traducibile “la collina tonda del rimbalzo”. Coi giochi di parole, gli americani non li batte nessuno. Esce dal college come detto un anno prima del previsto e, nel draft più clamoroso e ricco di talento probabilmente di sempre, finisce con la chiamata numero 5 (numero 1 Akeem Olajuwon, numero 3 “QUEL” Michael Jordan, per citarne due) ai Philadelphia 76ers di Dr. J, Moses Malone e Maurice Cheeks. Bobby Hurley, quello di Alabama HS? Scelto al secondo giro, mai calcato un parquet NBA, visto anche in Italia tra Torino e Trapani e finito a girovagare (sic) tra Corea e Birmania.
Arrivare in una squadra di veterani che solo due anni prima ha vinto un indimenticabile titolo è per Charles un toccasana, soprattutto perché Malone lo prende sotto la sua ala protettiva e lo aiuta a gestire i problemi di peso, di alimentazione e di preparazione fisica. I risultati si vedono, tanto che al secondo anno è già secondo quintetto NBA con oltre 20 punti e 12,8 rimbalzi di media. La squadra però non riesce ad andare oltre la finale di conference persa contro Boston nel suo anno da rookie, e nel giro di pochi anni perde anche i suoi veterani: prima Malone viene scambiato agli allora Washington Bullets (1986), poi Julius Erving si ritira (1987). Chuck diventa il padrone della squadra e l’uomo franchigia, inanellando riconoscimenti su riconoscimenti (primo e secondo quintetto NBA, presenza fissa all’all star game), ma non riuscendo ad arrivare nemmeno lontanamente vicino a quel che più cerca, ovvero un titolo. Barkley si afferma però come detto come un giocatore di incredibile talento e sostanza, oltre che un simpaticissimo istrione davanti ai microfoni dei giornalisti con uscite mai banali e spesso ironiche. Nell’ultima stagione a Phila per esempio, anno di grazia 1991-92, chiede e ottiene di indossare la maglia numero 32 (ritirata in onore di Billy Cunningham) al posto del suo storico 34, per onorare l’amico Magic Johnson che ha appena annunciato al mondo la sua sieropositività. A chi gli chiese se non ci fossero rischi nel giocare contro Magic, la sua risposta fu “Stiamo parlando di giocare a Basket. Non è come se facessimo sesso non protetto con Magic..”. Ecco. Nel 1991 vince l’mvp dell’all star game (quando ancora era una partita con un senso, un valore e anche una discreta importanza) eguagliando il record di Chamberlain per numero di rimbalzi arpionati con 22, e aggiungendoci 17 punti e la vittoria dei suoi per 116 a 114. Pochi giorni dopo il suo punto più alto però Barkley tocca il fondo. In una partita a New Jersey un tifoso locale lo insulta pesantemente con epiteti razziali, e il nostro non trova risposta migliore che… sputargli addosso. Peccato che la mira, ironia della sorte, per una volta non sia delle migliori, e lo sputo colpisca una bambina lì accanto. Apriti cielo. Multa e sospensione automatiche. Critiche a non finire. Charles ne viene fuori come suo solito, con onestà e senza perdere la simpatia che lo contraddistingue da sempre di fronte ai microfoni e fuori dal campo. Ammette l’errore, si scusa pubblicamente e stringerà anche amicizia con la ragazzina e la sua famiglia. Dopo essersi ritirato dirà: “Ammetto di essere stato un personaggio controverso, ma mi rammarico soltanto di una cosa, l’incidente dello sputo.”
Il 1992 è l’anno più importante forse in assoluto per la stella di Philadelphia. Viene convocato per far parte della più forte squadra di basket di tutti i tempi, il Dream Team di Barcellona. Alle olimpiadi Chuck è l’MVP di una squadra irripetibile, con Jordan, Magic Bird e tutti gli altri. Tira il 71% dal campo (nel 96 farà ancora meglio con l’81,6% che è tuttora record olimpico) e segna 18 punti a partita. Mette in ogni gara lo stesso agonismo che ha in NBA, arrivando anche a colpire con una gomitata un avversario dell’Angola, cosa che gli procurerà i fischi del pubblico per tutta la manifestazione. In un recente documentario passato sulla tv a pagamento, Barkley racconta sorridendo di come Jordan, durante il ritiro spagnolo, gli disse di essere onorato di giocare insieme al secondo giocatore più forte dell’NBA. Le loro strade, incrociatesi più volte ai play off e sempre con Chicago vincente, erano destinate proprio quell’anno ad un ultimo scontro sul palcoscenico più elevato. A fine stagione infatti Barkley chiese di essere ceduto, aiutando anche i Sixers ad avviare il processo di ricostruzione, e approdò a Phoenix, dove giocò una pallacanestro semplicemente celestiale. Ottenne il miglior record della lega con 62 vittorie, fu nominato MVP della stagione e raggiunse la finale, come detto contro Jordan e i suoi Bulls. Fu una finale memorabile, con Jordan a 41 punti di media e Chicago che vinse per due volte subito a Phoenix. Nessuno dava più possibilità ai Soli dell’Arizona, ma in gara 3 Phoenix ebbe la meglio dopo ben tre supplementari, riaprendo la serie. In gara 4 Jordan rispose con 55 punti in una gara epica portando i suoi sul 3-1. Con la quinta in casa, tutto sembrava apparecchiato per celebrare il titolo numero tre consecutivo, ma nonostante i 41 di MJ Phoenix e il suo guerriero ebbero la meglio e riportarono la serie a casa. Non bastò, nonostante una bellissima rimonta negli ultimi dodici minuti dalla doppia cifra di scarto, per vincere. John Paxson segnò gli unici tre punti del quarto quarto che non fossero griffati dal numero 23 con un tiro che resta nella galleria dei momenti incredibili di questo gioco.
Barkley non tornò mai più a disputare una finale. Iniziarono per lui i problemi alla schiena, perché portare a spasso tutti quei chili, e soprattutto giocare a quella maniera, alla fine un tributo lo chiede eccome. Sulla sua strada, dopo il temporaneo ritiro di Michael, si frappose la nuova dinastia di Houston e di Hakeem Olajuwon (che dal 1984 aveva aggiunto una H al suo nome abbracciando l’Islam, e pure un bel po’ di soluzioni offensive al suo arsenale), che per due volte li eliminò in altrettante serie memorabili (cercate la storia di “the death kiss” e “Mario Elie” su youtube, se volete saperne di più). Dopo un’ ultima stagione da 41 vinte e altrettante perse, Barkley passò proprio ai rivali texani con The Dream e Drexler, ma in mezzo ci si misero gli Utah Jazz di Stockton e Malone, e per Sir Charles non ci fu possibilità di ritrovare la sfida per l’anello. In mezzo ci si mise poi anche il destino, quando l’8 dicembre 1999, proprio sul campo che lo aveva visto entrare da matricola nella NBA, si ruppe il tendine del quadricipite della gamba sinistra. Portato fuori a braccia, il responso fu inappellabile. A 36 anni la sua carriera era finita. Charles però si rifiutò, come disse in seguito, di lasciare come ultima immagine della sua carriera quella dell’infortunio. Quattro mesi dopo tornò in campo in una gara contro gli allora Vancouver Grizzlies. Giocò sei minuti, catturò un rimbalzo offensivo e segnò subendo fallo. Poi venne subito sostituito nell’ovazione generale di tutto il pubblico, e dopo la partita annunciò il suo ritiro.
“Non posso spiegare cos’abbia significato questa notte. L’ho fatto per me. Ho vinto e perso tante partite, ma l’ultimo ricordo che avevo era quello di essere trasportato fuori dal campo. Non avrei potuto superare il blocco mentale di uscire dal campo a braccia. È stato psicologicamente importante uscire per l’ultima volta dal parquet sulle mie gambe.”
O lo odi o lo ami. Ed è facile capire chi vi scrive da che parte stia. Comunque più forte anche del destino. Il più basso giocatore a vincere la classifica dei rimbalzisti.
Semplicemente Sir Charles.
Marco Minozzi