Bucarest pone il veto alla candidatura serba, poi ci ripensa. I Balcani verso l’Unione?
Bucarest teme la secessione transilvana?
Nelle scorse settimane Belgrado ha finalmentre riconosciuto, sostanzialmente, l’autonomia della sua ex provincia meridionale del Kosovo stringendo con Pristina un importante accordo. Sembrava fatta. Belgrado, pur senza riconoscere l’indipendenza del Kosovo, vedeva spianata la strada verso l’Europa. Dopo la sigla dell’accordo Tadic si è affrettato a dichiarare che la Serbia non intende riconoscere l’indipendenza di Pristina, che non accetterà condizioni, ma ormai è evidente a tutti che si tratta di fole raccontate da un governo che si arrampica sugli specchi per non dire, nell’imminenza delle elezioni, che quella sul Kosovo è partita chiusa.
[ad]Il presidente romeno Traian Basescu, spalleggiato dal neo-premier Ungureanu e dal ministro degli Esteri, Cristian Diaconescu, hanno pensato bene di accusare Belgrado di aver creato un pericoloso precedente per l’Europa intera. Bucarest teme che il precedente del Kosovo possa dare adito ai movimenti separatisti filo-ungheresi della Transilvania dove, nei distretti del Mures, di Harghita e di Covasna, vive la minoranza magiara. Erano quelli territori del Regno d’Ungheria fino alla fine della Prima guerra mondiale e oggi i magiari residenti, anche incoraggiati dal nuovo corso nazionalista e irredentista di Budapest, sognano la riunificazione della storica regione all’Ungheria. I pericoli della secessione ungherese, però, sembrano piuttosto remoti.
La ritorsione di Bucarest
Ma né la tutela della minoranza valacca né il pericolo secessionista transilvano sembrano motivazioni credibili per il veto romeno. Anche perché, se lo fossero, sarebbero un tantino risibili. I malpensanti hanno avanzato l’ipotesi “ritorsiva”. E a pensar male si fa peccato ma ci si azzecca. La Romania, infatti, ha visto più volte chiusa la porta dello spazio Schengen. A non volerla è stata soprattutto l’Olanda che paventa la diffusione del crimine organizzato trans-nazionale contro cui Bucarest non saprebbe (o non vorrebbe) fare abbastanza. Pregiudizi vecchi come il continente.
Anche per questo il ministro degli Esteri Diaconescu aveva espresso il desiderio di recarsi personalmente ad Amsterdam per cercare di sbloccare la situazione: “Perché a croati, serbi, ed in prospettiva ad albanesi, macedoni e bosniaci, l’Unione Europea permette molte cose mentre nei nostri confronti esprimono solamente veti e chiusure?” ha dichiarato il ministro. Forse in queste parole va ricercato il motivo del veto romeno.
Bosnia, Albania e Turchia
Un veto presto caduto, però. Così il primo marzo Belgrado ha compiuto il grande passo. La speranza è che gradualmente tutti i Paesi dei Balcani occidentali entrino nell’Unione e lì trovino motivo di disinnescare le tensioni che li oppongono. Il veto romeno, infatti, era “esteso” idealmente anche a Bosnia e Albania che però non si scomposte più di tanto. Tirana e Sarajevo guardano certo all’Europa ma non solo. Polo d’attrazione è oggi più che mai la Turchia, capace di entrare nell’economia balcanica anche grazie al retaggio ottomano. L’Albania guarda agli investimenti turchi mentre la Bosnia Erzegovina potrebbe rivelarsi il trait d’union tra Bruxelles e Ankara, vista la vicinanza anche culturale con la Sublime Porta e gli investimenti dell’Unione Europea nella ricostruzione post-bellica.
Certo Sarajevo non può facilmente dimenticare le responsabilità europee in quelle che furono le guerre jugoslave. La strage di musulmani a Srebrenica, inoltre, fu permessa proprio dai militari olandesi, provenienti cioè da un membro fondatore dell’Unione, oggi molto impegnato ad impedire a Romania e Bulgaria l’accesso allo spazio Schengen.
Insomma, una Serbia che va verso l’Europa potrebbe dare la stura all’avvicinamento europeo di tutti i Balcani, forse Turchia compresa.Un avvicinamento generale che aiuterebbe la Romania a vincere le resistenze olandesi all’ingresso in Schengen. Ecco che il veto, allora, proprio non si spiega. Ma nell’Unione dell’egosimo nazionalista cose del genere non stupiscono, purtroppo.
di Kaspar Hauser