I Balcani procedono verso l’Unione Europea pur tra mille difficoltà. C’è una storia che non vi abbiamo raccontato e che nelle scorse settimane ha opposto la Romania alla Serbia. Ma l’orgoglio ferito di Bucarest ha trovato presto motivo di soddisfazione.
Negli ultimi giorni di febbraio Bucarest aveva infatti annunciato di voler porre il veto al riconoscimento dello status di “paese candidato” all’adesione all’Unione Europea per la Serbia, passo precedente all’avvio di un negoziato d’adesione all’Unione. Una doccia fredda per Belgrado ormai prossima alle elezioni.
Il motivo apparente
Il motivo, almeno quello apparente, della contrarietà romena stava nella mancata tutela della Serbia nei confronti della minoranza valacca. Una minoranza di origine trace-illirica completamente romanizzata già nel VI° secolo. La Valacchia è il territorio tra il Danubio e le Alpi Transilvaniche, un antico principato che unendosi alla Moldavia generò il regno di Romania, non prima di finire nelle mani dell’impero ottomano. Oggi parte della popolazione valacca risiede in Serbia. Si tratta di circa 40mila persone che vivono in gran parte nella zona al confine con la Romania e parlano una lingua latina. Insomma, non si tratta di genti slave, come invece i loro vicini serbi.
La questione valacca non c’entra un’acca
[ad]Nonostante la costituzione serba tuteli espressamente le minoranze linguistiche, la Romania aveva minacciato di rompere le uova nel paniere a Belgrado che, dopo mille difficoltà (dai criminali di guerra consegnati, alla rinuncia al Kosovo) vedeva avvicinarsi il miraggio europeo.
All’annuncio del colpo di testa romeno il presidente serbo Boris Tadic ed il suo ministro degli Esteri , Vuk Jeremic, sembravano prossimi a una crisi di nervi. Anche perché, a ben vedere, non sembra che i valacchi soffrano di una qualche discriminazione.
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Bucarest teme la secessione transilvana?
Nelle scorse settimane Belgrado ha finalmentre riconosciuto, sostanzialmente, l’autonomia della sua ex provincia meridionale del Kosovo stringendo con Pristina un importante accordo. Sembrava fatta. Belgrado, pur senza riconoscere l’indipendenza del Kosovo, vedeva spianata la strada verso l’Europa. Dopo la sigla dell’accordo Tadic si è affrettato a dichiarare che la Serbia non intende riconoscere l’indipendenza di Pristina, che non accetterà condizioni, ma ormai è evidente a tutti che si tratta di fole raccontate da un governo che si arrampica sugli specchi per non dire, nell’imminenza delle elezioni, che quella sul Kosovo è partita chiusa.
[ad]Il presidente romeno Traian Basescu, spalleggiato dal neo-premier Ungureanu e dal ministro degli Esteri, Cristian Diaconescu, hanno pensato bene di accusare Belgrado di aver creato un pericoloso precedente per l’Europa intera. Bucarest teme che il precedente del Kosovo possa dare adito ai movimenti separatisti filo-ungheresi della Transilvania dove, nei distretti del Mures, di Harghita e di Covasna, vive la minoranza magiara. Erano quelli territori del Regno d’Ungheria fino alla fine della Prima guerra mondiale e oggi i magiari residenti, anche incoraggiati dal nuovo corso nazionalista e irredentista di Budapest, sognano la riunificazione della storica regione all’Ungheria. I pericoli della secessione ungherese, però, sembrano piuttosto remoti.
La ritorsione di Bucarest
Ma né la tutela della minoranza valacca né il pericolo secessionista transilvano sembrano motivazioni credibili per il veto romeno. Anche perché, se lo fossero, sarebbero un tantino risibili. I malpensanti hanno avanzato l’ipotesi “ritorsiva”. E a pensar male si fa peccato ma ci si azzecca. La Romania, infatti, ha visto più volte chiusa la porta dello spazio Schengen. A non volerla è stata soprattutto l’Olanda che paventa la diffusione del crimine organizzato trans-nazionale contro cui Bucarest non saprebbe (o non vorrebbe) fare abbastanza. Pregiudizi vecchi come il continente.
Anche per questo il ministro degli Esteri Diaconescu aveva espresso il desiderio di recarsi personalmente ad Amsterdam per cercare di sbloccare la situazione: “Perché a croati, serbi, ed in prospettiva ad albanesi, macedoni e bosniaci, l’Unione Europea permette molte cose mentre nei nostri confronti esprimono solamente veti e chiusure?” ha dichiarato il ministro. Forse in queste parole va ricercato il motivo del veto romeno.
Bosnia, Albania e Turchia
Un veto presto caduto, però. Così il primo marzo Belgrado ha compiuto il grande passo. La speranza è che gradualmente tutti i Paesi dei Balcani occidentali entrino nell’Unione e lì trovino motivo di disinnescare le tensioni che li oppongono. Il veto romeno, infatti, era “esteso” idealmente anche a Bosnia e Albania che però non si scomposte più di tanto. Tirana e Sarajevo guardano certo all’Europa ma non solo. Polo d’attrazione è oggi più che mai la Turchia, capace di entrare nell’economia balcanica anche grazie al retaggio ottomano. L’Albania guarda agli investimenti turchi mentre la Bosnia Erzegovina potrebbe rivelarsi il trait d’union tra Bruxelles e Ankara, vista la vicinanza anche culturale con la Sublime Porta e gli investimenti dell’Unione Europea nella ricostruzione post-bellica.
Certo Sarajevo non può facilmente dimenticare le responsabilità europee in quelle che furono le guerre jugoslave. La strage di musulmani a Srebrenica, inoltre, fu permessa proprio dai militari olandesi, provenienti cioè da un membro fondatore dell’Unione, oggi molto impegnato ad impedire a Romania e Bulgaria l’accesso allo spazio Schengen.
Insomma, una Serbia che va verso l’Europa potrebbe dare la stura all’avvicinamento europeo di tutti i Balcani, forse Turchia compresa.Un avvicinamento generale che aiuterebbe la Romania a vincere le resistenze olandesi all’ingresso in Schengen. Ecco che il veto, allora, proprio non si spiega. Ma nell’Unione dell’egosimo nazionalista cose del genere non stupiscono, purtroppo.
di Kaspar Hauser