Lo hanno fatto in silenzio, a porte chiuse e senza giornalisti. Lo hanno fatto da clandestini tanto che anche chi segue l’Africa (come chi scrive) se ne è accorto con qualche giorno di ritardo. Sto parlando dei 53 capi di stato africani che settimana scorsa si sono riuniti per un vertice ufficiale dell’Unione Africana e hanno approvato un emendamento che svuota di potere la African Court Of Justice and People’s Rights nei confronti dei capi di stato e di governo del continente.
In sostanza, a porte chiuse, si sono garantiti l’immunità da eventuali inchieste e accuse di violazioni dei diritti umani, di crimini di guerra o contro l’umanità. Si sapeva che ai presidenti dell’Africa non piaceva la Corte Penale Internazionale dell’Aja, dalla quale discendono poi le Corti in Africa o in altre nazioni del mondo. Ma il fatto che tutti insieme, ad un summit del massimo organismo sovranazionale del continente, decidano di “votarsi” l’immunità significa che prima, sempre di nascosto, senza pubblicità, da complottatori, hanno fatto funzionare la diplomazia, si sono messi d’accordo, hanno deciso il momento giusto e come realizzare questo colpo di mano. Complimenti!
Certamente la decisione sarà stata sollecitata dai presidenti già inquisiti, cioè il sudanese Omar Al Bachir, quello keniano Uhru Kenyatta (e il suo vice William Ruto). Ma tutti gli altri hanno prontamente aderito per prevenire accuse e inchieste future, magari nei loro confronti.
Tutti (o quasi) infatti hanno scheletri nell’armadio. Se un giorno toccherà a loro potranno contare sulla solidarietà che ora stanno mettendo in campo per i loro colleghi. Alcuni presidenti africani erano addirittura arrivati al paradosso: avevano accusato la Corte dell’Aja di razzismo perché affermavano che inquisiva e accusava solo presidenti africani. Dopo questo voto la giustizia ha le armi più spuntate. In Africa si potranno violare diritti umani e compiere crimini con la quasi certezza dell’impunità.
Alcune ultime doverose annotazioni: l’unico voto contro è stato quello del Botswana. Il vertice si è svolto in un paese dell’Africa dove non poteva passare una decisione diversa, cioè in Guinea Equatoriale dove governa un eterno presidente, Teodoro Obiang Nguema, in carica dal 1979 e ripetutamente accusato di reprimere brutalmente qualsiasi forma di opposizione.
Infine due segnalazioni. O meglio, due premi nobel al silenzio: il primo a Nkosazana Dlamini-Zuma, presidente donna dell’Unione Africana. Si era sperato in lei, in quanto donna, per una gestione più giusta del massimo organismo africano, invece proprio per la sua carica ha coperto la clandestinità con la quale i presidenti si sono assolti in anticipo da qualunque misfatto.
E poi l’Unione Europea. Non si è levato un grido, una accusa, una protesta, un monito da Bruxelles. Non c’è che dire. Complimenti!