Analisi di una mistificazione: la legge anti-stalking e dintorni – Intervista allo scrittore Davide Stasi
Termometro Politico ha raggiunto Davide Stasi animatore del blog “Stalker sarai tu” e autore di un omonimo libro-inchiesta che indaga le storture della Legge sullo Stalking.
Lei non esita a definire la legge sullo stalking, lapidariamente, “acchiappaconsenso”. Partiamo da qui?
È una delle tante che può essere definita in questo modo, anche se forse una delle più scandalose. È il frutto del combinato disposto di più anomalie: l’incapacità della politica di affrontare problemi complessi con soluzioni parimenti complesse, anzitutto. Insieme a questa incapacità c’è anche del calcolo, ovviamente: una risposta articolata rischia di non venire compresa dall’opinione pubblica. Dunque si sceglie la strada della semplificazione, della banalizzazione. Quella che parla alla “pancia” delle persone, e che quindi può essere immediatamente compresa e apprezzata. Un apprezzamento che torna poi utile al momento delle elezioni. Torniamo al famoso adagio di De Gasperi, insomma: “un politico guarda alle prossime elezioni, uno statista guarda alla prossima generazione”. Non vedo statisti da molti decenni dalle nostre parti. Ed è così che si risponde a problemi complessi trattandoli come se fossero solo questioni di ordine pubblico. Esiste un fenomeno di devianza? La risposta è: repressione e carcere. Facile da capire, facile da gradire per quel “ventre” popolare che vive in uno stato di paura permanente, ampiamente indotta dagli stessi politici con la complicità dei media, e che istintivamente si affida all’apparente panacea del “law and order”. Il problema è che raramente una devianza si riduce al solo aspetto dell’ordine pubblico.
Gli atti persecutori, il cosiddetto stalking, sono un fenomeno che chiama in causa una molteplicità di fattori: sociali, psicologici e psichiatrici, e solo in ultima battuta, con una frequenza inferiore a quanto viene narrato, criminologici. Regolamentare il fenomeno avrebbe richiesto studi preliminari approfonditi e l’elaborazione di una norma attenta a questi aspetti. Difficilmente la politica italiana sarebbe stata in grado di farlo. E in ogni caso sarebbe stato impossibile per un’opinione pubblica puramente “emozionale” capirla e apprezzarla: non avrebbe risposto all’istinto greve del “tutti dentro!”, al grido diffuso “in galera!”, e dunque non ci sarebbe stata una risposta in termini di consenso. Ritengo che il compito dello Stato, attraverso la politica, sia anzitutto quello di essere migliore, per etica e capacità normativa, del singolo cittadino o di un’intera opinione pubblica. E di esserlo ad ogni costo. La ricerca ossessiva del consenso fa sì invece che lo Stato e la politica siano quali, e talvolta peggio, l’opinione gli chiede di essere. L’esito sono appunto norme “acchiappaconsenso”, che finiscono per creare più problemi di quanti ne prevengano o risolvano. L’articolo 612 bis del Codice Penale, appunto quello che si occupa di stalking, ne è un chiaro esempio.
Il suo testo risulta particolarmente efficace, innanzitutto, quando spiega come la legge venga utilizzata a mo’ di “coltellino svizzero”; l’espressione vuole descrivere l’uso “smodato” nonché “fuori luogo” che se ne fa nella maggior parte dei casi?
In effetti così è. Il segreto sta nei parametri di accesso alla denuncia. Se voglio segnalare una persona per violenza privata, stupro, minacce, so che devo portare con me una certa quantità di evidenze, prove, fatti, altrimenti la mia denuncia verrà archiviata. Posso anche provare, e succede spessissimo, a falsificare le prove o costruirle a tavolino con qualcuno di compiacente, ma so che rischio grosso, se vengo scoperto. Cosa rara visto quanto sono oberate le procure, ma il rischio comunque c’è. La legge sullo stalking invece non richiede nulla di tutto questo, non è necessario portare prove: è sufficiente accusare qualcuno, e la denuncia parte come un treno per il suo iter. Chiaro che, con queste caratteristiche, posso usare tale accusa per una molteplicità di ragioni e per una molteplicità di scopi: allontanare immediatamente un ex dalla casa coniugale e dalla prole, vendicarmi per un torto o un tradimento subito, ricattare il partner con cui ho pendenti questioni economiche, chiudergli la bocca rispetto a caratteristiche socialmente inaccettabili… Un coltellino svizzero appunto. Ad accusa formulata, a denuncia depositata, prende l’avvio un processo inarrestabile, che mette l’accusato in una condizione passiva, dove gli è impossibile difendersi. Non solo: solitamente chi presenta denuncia non si esime, a buon peso, dal diffondere l’iniziativa presso amici e conoscenti, con ciò garantendo all’accusato anche lo stigma infamante di criminale. Una delle tante storie che ho sentito raccontava di un uomo a cui la ex ha serrato la bocca con un’accusa per atti persecutori, per impedirgli che questi raccontasse all’ex marito di lei le violenze che la donna usava con le tre figlie nonché alcune spiccate tendenze pedofile, di cui aveva ampie prove. Roba che le avrebbero tolto l’affido al volo. Bene, denunciandolo per stalking gli ha chiuso la bocca per sempre. Per scavalcare il problema allora lui ha presentato un esposto in Procura. Destino vuole che le sue novanta pagine di prove siano andate in mano allo stesso PM che aveva accolto la falsa accusa di stalking a suo carico. Esito: lui è sotto processo, sebbene non ci sia uno straccio di prova, e il suo esposto, gonfio di prove agghiaccianti, è stato archiviato. Un caso emblematico, e l’andazzo è questo.
Non è un caso che questo tipo di accusa stia soppiantando in modo crescente le accuse che più tradizionalmente vengono usate in modo strumentale durante le fasi di separazione. Come detto, accusare l’ex marito di violenza sessuale sui figli richiede la costruzione di prove, il lavaggio del cervello dei figli stessi… insomma cose complesse che possono anche non funzionare. Un’accusa di stalking invece funziona sempre e non richiede nulla, se non un’autocertificazione di essere “in ansia” a causa dell’ex. Gli apparati che ricevono la denuncia procedono sempre, un po’ per scrupolo, un po’ per paura. Hai visto mai che la denuncia sia fondata e ci si faccia sfuggire un criminale? Se poi questo perde la testa e fa qualcosa di grave, in prima pagina ci finiscono forze dell’ordine e giudice. Dunque si procede sempre, alla cieca, con un passaggio della patata bollente che spesso arriva fino al collegio giudicante in sede penale. Procedono così anche perché le denunce per stalking sono talmente tante che è impossibile indagare per bene su tutte, fare la tara delle false accuse (la maggioranza dei casi) o delle denunce improprie, come quando ci si appella al 612bis per situazioni che in realtà sono di molestie o minacce.
Ed è anche per questo che si è arrivati a scenari grotteschi dove vengono inquadrate come stalking anche situazioni di dispetti incrociati tra condomini, di parcheggio selvaggio o di attriti tra genitori e figli… Un coltellino svizzero, appunto. Il che è una stortura assoluta, essendo lo stalking un tipo di devianza molto circoscritto nelle sue caratteristiche proprie.
Un altro tema centrale: la Legge sullo Stalking sembra rientrare in una più grande dinamica di allargamento della sfera del “consumo”; una dinamica che sta investendo in particolare le donne. È così?
Sì, in questo senso lo stalking (e il modo con cui il legislatore ha approcciato al problema) è un tassello di un mosaico molto più ampio che ha a che fare con la storia, la società e l’economia contemporanea. Nel libro cerco di affrontare questo, che è un tema talmente complesso da meritare un paio di volumi, in modo sintetico e schematico, e dai riscontri avuti finora sembra la parte che più lascia a bocca aperta. In realtà scopro l’acqua fredda: registro infatti che le sacrosante conquiste femministe del passato hanno cambiato anzitutto gli uomini, che hanno preso a interpretare il proprio ruolo non più come soggetti produttori di reddito, ma come parte di un processo denso di significati. L’essere padre non è più, da tempo, grazie alle lotte femministe, un semplice portare a casa lo stipendio per mantenere tutti: è una partecipazione attiva alla vita, all’educazione, alla crescita della prole, all’interno di un progetto solido di cooperazione con la donna, che contribuisce al sostentamento e alla ricchezza economica della famiglia tanto quanto l’uomo. Questi si è adeguato di buon grado alla rivoluzione culturale. La parte femminile invece è “andata lunga” e si è lasciata manipolare dalla new wave del consumismo liquido della nuova economia. Oggi i manuali di base di marketing dicono che réclame e prodotti devono rivolgersi essenzialmente a due soggetti: bambini e donne, coloro che più orientano i consumi familiari o hanno una spiccata propensione al consumo di beni fatui. Così la famiglia dove un tempo l’uomo portava lo stipendio a casa e la donna lo amministrava, giocando il ruolo di banca centrale e ministero dell’economia, ora è un soggetto dove è il maschio a tentare di orientare le economie in un’ottica domestica, cercando di resistere alle spinte consumistiche di figli e moglie. Quest’ultima, in particolare, vive la libertà di consumo come passo ulteriore della propria emancipazione, e non tollera in questo opposizioni o ostacoli, che interpreta come oppressione, ribellandovisi, talvolta fino alla distruzione della realtà familiare.
Si crea un cortocircuito facilmente misurabile analizzando il tipo di auto-esposizione che una gran parte di mondo femminile, specie quello reduce da una separazione, fa sui social network. Un cortocircuito che è immiserimento della persona, prima ancora che di un genere. Uno stato di fatto dove i media e i produttori di beni fatui inzuppano allegramente il pane. La donna, così contraddittoriamente impostata, ha un bisogno folle di ritrovare quel senso perduto in un’emancipazione deviata su territori improduttivi, e dunque si getta a capofitto in iniziative di “appartenenza” e nel “consumo”. I guru del marketing hanno capito (e alimentano) questo approccio. Una delle parti che impressiona di più del mio libro sono gli screenshot di alcune pagine di quotidiani nazionali dove notizie di impegno socio-politico declinate al femminile sono affiancate da pubbliredazionali di moda (sempre femminile). Nulla è casuale, ed è anche per questo che ho battezzato una certa preponderante figura di donna contemporanea come “bambina consumatrice”. Una figura che il sistema ha bisogno di preservare, difendere, incentivare, perché contribuisce a far girare l’economia. Anche in questo senso va tutto il battage femminocentrico di questi ultimi tempi, nonché la declinazione al femminile di leggi, sentenze, statistiche e quant’altro. La raccapricciante norma sugli atti persecutori è parte di questo quadro a mio avviso.
In realtà, nel suo libro non c’è solo un’attenta disamina dei meccanismi perversi della normativa: al di là del “genere”, la sua narrazione contrappone il coraggio dei “colpevoli” all’irragionevolezza delle “vittime”. È come se volesse dare voce a un’umanità umiliata e offesa che nessuno vuole raccontare. Riconosce questo come uno dei suoi obiettivi?
Di fatto è così, proprio per il motivo che dicevo poc’anzi. La versione alternativa infastidisce il manovratore, e va repressa. Anche per questo ho deciso di raccontarla… Al sistema serve, sotto vari aspetti, che venga identificato un gruppo di persone da indicare come colpevole. E serve che questo gruppo subisca in silenzio, perché la sua voce potrebbe rovinare la festa, sebbene invochi quella giustizia e quell’equità che dovrebbero essere connesse a uno Stato di Diritto.
Non parlo naturalmente dei colpevoli veri. Parlo di quell’umanità amplissima di padri e uomini (e talvolta anche donne) incastrate in meccanismi inefficaci, inefficienti, strumentalizzabili, abusabili con grande facilità. Parlo, dall’altro lato, del cinismo di chi quei meccanismi li usa a proprio vantaggio o li strumentalizza a favore di uno schema più ampio, di un modello di società atomizzata, liquida, disumanizzata. Ben intesi, la mia ambizione non è quella di fare il Dostoevskij della situazione e di portare la testimonianza degli umiliati e degli offesi, o meglio non solo. Ne faccio una questione anzitutto di giustizia, di equità, di Stato di Diritto, appunto. Che è, dovrebbe essere, quell’insieme di dispositivi frutto di elaborazioni e sacrifici fatti nella storia, e connessi per evitare che sia necessario auspicare un bilanciamento tra presunte vittime e presunti colpevoli. Non solo: l’esistenza e il corretto funzionamento di uno Stato di Diritto è la prima e più grande difesa contro le degenerazioni e i regimi. Ne ho rilevato recentemente un esempio nella notizia che la Carmen di Bizet verrà messa in scena dal Maggio Fiorentino con una modifica del finale: la protagonista non morirà più per mano di Don José. Se ho capito bene sarà il contrario: lei ucciderà lui, o qualcosa del genere. Il tutto per sensibilizzare il pubblico sulla violenza contro le donne. Un’iniziativa che è uguale alla distruzione dell’Arco di Palmira, differenze non ce ne sono. Ma tant’è l’occasione è stata utilizzata per annunciare che il Tribunale di Firenze si doterà di una sezione specifica per la violenza sulle donne, come se si trattasse seriamente di un’emergenza nazionale. Per altro ho il sospetto che una sezione del genere in un apparato dello stato sia vagamente anticostituzionale (art.3), ma ormai è tutto possibile.
Di buono, in situazioni come queste, è che ancora esiste una capacità reattiva. Sembra ancora possibile, a fronte degli eccessi, aggregare una risposta alle ingiustizie e ai soprusi. Di fatto negli ultimi tempi si è davvero tirata troppo la corda, ed è così che nascono iniziative che tentano di coagulare e rendere dirompenti le istanze di legioni di umiliati e offesi, come il patto (che per altro io ho sottoscritto convintamente e sto cercando di diffondere) per l’equità e la giustizia, presente sul sito Petizioni24.com. Un’iniziativa innovativa, coraggiosa, che speriamo trovi ampio seguito.
A tal proposito, lei sottolinea a più riprese come uno Stato di Diritto non possa fare affidamento al “sentire soggettivo” di chiunque si proclami “vittima”; ampliando la tematica oltre lo stalking, prende sempre più credito la retorica del “se non sei d’accordo con me, ce l’hai con me”. Che ne pensa?
È una deriva pericolosissima, e siamo già molto in basso su questa china. Lo Stato di Diritto si basa su alcuni assunti che dovrebbero essere intoccabili: l’innocenza fino a prova contraria, l’onere della prova che grava sull’accusa, sentenze emesse oltre ogni ragionevole dubbio. Il reato di stalking è basato sul sentire soggettivo della presunta vittima, come tale viene autocertificato, anche senza prove. Questa è l’abdicazione della legge al suo ruolo di definire le fattispecie, ed è parte dell’insipienza, voluta o meno, del legislatore, come dicevo all’inizio. Si lascia che sia l’accusatore a definire la sussistenza o meno del reato, e questo apre un’autostrada agli abusi. Una logica che vale ormai, visto l’andazzo culturale, anche per altri reati: in molti casi una donna che si professa vittima e presenta prove anche labili ottiene più credito di un uomo nelle stesse condizioni. In questo senso siamo comunque già ben oltre lo Stato di Diritto, nel momento in cui è consentito rovinare una persona formulando accuse sui media vent’anni dopo che un fatto è accaduto. Siamo tornati al noto “dagli all’untore”, però su scala globale. In questa situazione i tribunali, le procedure, le prove, le testimonianze non servono più: si fa tutto direttamente in TV, sui giornali o sul web. Durante il momento “caldo” del caso Weinstein ebbi modo di leggere su un quotidiano nazionale una “guida” contro le molestie, dove si diceva che sfiorare il ginocchio di una donna poteva essere considerato appunto come una molestia, essendo il ginocchio una zona erogena. Mi sono chiesto se era una nuova definizione del punto G o se si stava arrivando al parossismo. Credo sia quest’ultimo caso, visto cosa si vede e si legge in giro.
A partire dalla banca dati che la Boschi ha commissionato all’ISTAT, e che ha presentato poco dopo lo scioglimento delle Camere. A riprova che si tratta di un’iniziativa elettorale pagata con soldi pubblici (due milioni di euro), con cui chiamare a raccolta in vista del voto le consorterie e le corporazioni foraggiate finora. Un’occhiata approfondita a quella banca dati, come ho fatto sul mio blog, mostra la presenza di mistificazioni e falsificazioni, oltre a un certo numero di autogol, che è oltre, molto oltre il grottesco e il parossismo. Fortuna che ormai la questione sembra giunta a saturazione. Uomini e donne per bene in questo paese non ne possono più e hanno sviluppato un istintivo sospetto verso queste tematiche proposte in modo così ossessivo.
La verità, che tutti ormai percepiscono, è che occorre fare urgentemente la convergenza alle relazioni di genere, spazzando via ideologismi e interessi connessi, e opponendosi a strategie divisive. Uomini e donne dovrebbero stringersi in un unico corpo, elaborando un nuovo modo di stare assieme che poggi sulle conquiste civili già acquisite, su un riconoscimento reciproco di dignità, proiettandosi verso il futuro. Non parlo di un ritorno alla famiglia tradizionale, ma a un nuovo concetto di famiglia, che si costituisca come baluardo della liquidità e atomizzazione sociale voluta dal mercato, oltre che come punto di arrivo e partenza di una vita affettiva ricca e densa di significato.
“La vittima è l’eroe del nostro tempo” così comincia “La critica della vittima” di Daniele Giglioli, un libro che, anche se con intenti diversi, potrebbe essere associato al suo. Quanto è d’accordo con questa affermazione?
Mi viene in mente la nota frase di Brecht “beati i popoli che non hanno bisogno di eroi”. Quando poi si crea uno scenario dove sono le vittime a doversi elevare al rango di eroi significa che si è forse raggiunto il punto più basso del degrado, o si è addirittura iniziato a scavare. Significa che il sopruso, l’abuso, la malversazione sono giunti a rendersi talmente strutturali che per il ripristino di uno stato di giustizia ed equità vengono chiamati a lottare e a sacrificarsi (l’eroe è tale perché è pronto al sacrificio) coloro che già hanno patito danni, che si trovano costantemente al centro del mirino, oggetto di beffe e demonizzazioni. È una delle conseguenze della scomparsa delle ideologie, che per lo meno, giusti o sbagliati che fossero, fornivano paradigmi apparentemente infallibili nella lettura della realtà. Ora tutto è lasciato in mano al mercato, agli interessi e a coloro che si trovano in condizione di manovrarli e imporli. E che di sicuro non sono gli eroi del nostro tempo. Di fronte a questo stato di fatto sembra non esserci opposizione, sparpagliati, divisi e impauriti come siamo stati resi noi e le istituzioni che un tempo ci proteggevano (famiglia e scuola in primis). L’unica possibilità di resistenza e opposizione è data dall’aggregazione di queste vittime-eroi, di questi perdenti-paladini. Quando sono capaci di riconoscersi e di parlare a una voce sola possono ancora avere la forza di far cambiare rotta a un sistema. Almeno questa è la speranza.
Scrivere libri e diffondere le idee che riguardano queste vittime eroiche è un contributo alla missione, se non alla crociata, finalizzata a scalfire per poi abbattere il muro di ipocrisie e mistificazioni che, su questi temi, è diventato sempre più alto e invalicabile. Con il mio “Stalker sarai tu” ho provato a gettare un sasso sulla fronte di questo gigante (d’altronde il mio nome di battesimo mi porta naturalmente a provarci…). Vedremo col tempo se l’ho centrato. Molto, anzi direi quasi tutto, dipende da quanti altri riconosceranno nel mio gesto e nel mio libro quel “che l’inse?” di cui mi pare si sentisse la necessità. E che, come accadde all’epoca del mio antico concittadino Giovanni Battista Perasso, altri si affianchino con mazze, pietre e bastoni. Dagli e dagli si spacca pure il metallo, si dice a Napoli.
Io quel muro lo sento già scricchiolare, per quante deboli fondamenta ha. Dagli e dagli ho fiducia che lo vedremo crollare a breve, per aprire una nuova era dove equità e giustizia vengano ripristinati.