Medio Oriente: la questione irrisolta del Jihadismo
A partire dal 2003, anno dell’attacco anglo-americano contro l’Iraq di Saddam Hussein, il Medio Oriente ha vissuto una gravissima recrudescenza del fenomeno jihadista, intendendo con tale termine la galassia di sigle facenti riferimento al fondamentalismo islamico. Prima Al Qaida, guidato da Osama Bin Laden, e poi lo Stato Islamico, o ISIS, guidato da Abu Bakr Al Baghdadi, hanno rappresentato solo due esempi di come interpretazioni estremiste dell’Islam siano state in grado di raccogliere migliaia di adesioni e, soprattutto, portare attacchi contro l’Occidente e finanche la creazione di un vero e proprio stato per quanto non riconosciuto a livello internazionale. Tuttavia, la decapitazione di Al Qaida e la sconfitta in Siria e Iraq dell’ISIS non nascondono il perdurare di una questione che, prima di essere militare, è squisitamente politica, rappresentando il jihadismo la più evidente e virulenta conseguenza di gravi squilibri sociali, economici e, appunto, politici.
Medio Oriente: interpretazione distorta
Il jihadismo, nel suo concetto più semplice, si può riassumere in un’interpretazione distorta e fondamentalista dell’Islam che promuove il jihad come strumento militare e politico di diffusione dell’Islam medesimo, in contrapposizione, soprattutto, al mondo e ai valori occidentali. Il concetto di jihad è presente sin dagli albori del credo islamico, sebbene la caratterizzazione sacrale-militare che oggi la contraddistingue non fosse altrettanto manifesta. Il jihad, infatti, nella concezione maomettana del termine, rappresenta una guerra interiore all’individuo teso a mantenere la retta via e a resistere alle tentazioni che nell’arco della vita possano presentarsi. Non è un caso che il Corano stesso affermi come “non vi sia costrizione nella fede” (Corano, 2:256).
L’elemento militare è stato successivamente aggiunto, nell’epoca dei primi califfi, ma è da considerarsi come strumentale alla conquista territoriale che l’embrionale impero islamico stava ponendo in essere. In tale contesto, l’elemento religioso poteva rappresentare il collante e il propulsore dell’offensiva islamica, sulla falsa riga del ruolo della religione individuato da Machiavelli, ma non la causa prima, potendo ascrivere questa a necessità meramente politiche, così come avvenuto con esempi statuali precedenti e successivi.
Venendo ad oggi, il jihadismo risulta essere manifestazione principalmente dell’Islam sunnita, e scaturito dall’estremizzazione di quel sunnismo politico sorto in seguito alla rivoluzione khomeinista iraniana di stampo sciita. Più nello specifico, l’interpretazione maggioritaria tra i gruppi jihadisti è quella salafita (da salaf, antenato), che propugna un ritorno alla purezza originaria dell’Islam, rimuovendo tutto ciò che sia stato inserito successivamente alla predicazione di Maometto. Nelle sue forme più estreme, questa interpretazione, che trova una sponda nello wahabismo saudita, afferma come sia necessario eliminare non solo chi sia infedele, ma anche chi, seppur musulmano, non si confaccia a tale impostazione.
Il jihadismo contemporaneo, quindi, nasce tra gli anni ’80 e ’90, allorquando, alcuni dei paesi a maggioranza sunnita, in primis l’Arabia Saudita, iniziarono a paventare un’eccessiva proiezione esterna da parte dell’Iran sciita e a sostenere gruppi e stati che fossero in grado di ingabbiare Teheran. Tale strategia ha tuttavia scontato l’intrinseca scarsa lungimiranza, ritorcendosi contro quei paesi che l’avevano ideata e sostenuta, complice un Occidente accondiscendente in tal senso, e facendo sì che i gruppi più estremisti sfuggissero ad ogni controllo. Un esempio è offerto dal patto tra Riad e Pakistan volto alla creazione e al supporto del movimento dei Talebani in Afghanistan, i quali, acquistato il controllo del paese nel 1996, avrebbero poi fornito protezione al capo di Al Qaeda, Osama Bin Laden.
Medio Oriente: basi sociali
Al di là dell’origine storica e oltre alla brutalità degli attacchi perpetrati da tali gruppi, ciò che più colpisce è la loro capacità comunicativa che si traduce in un altrettanto rilevante abilità di reclutamento di nuovi combattenti. Risulta chiaramente difficile poter individuare il profilo psicologico del singolo jihadista, ma è forse possibile identificare altri parametri che possano contribuire a comprendere chi più facilmente si senta spinto ad unirsi alle file terroriste.
Know-how, età e conoscenza dell’Islam possono rappresentare alcuni di questi elementi. Il filo conduttore rimane la devozione alla causa islamica, frutto, come visto poc’anzi, di una interpretazione estremista dell’Islam medesimo. Prendendo in considerazione l’ISIS, ultimo esempio di terrorismo jihadista nonché organizzazione in grado di reclutare decine di migliaia di combattenti, è possibile individuare due diversi gruppi di jihadisti.
Il primo è composto dai cosiddetti “foreign fighters“, cittadini occidentali che si sono uniti allo Stato Islamico e che possono essere descritti come giovani istruiti tra i 20 e i 30 anni, ma con una conoscenza della legge islamica e del Corano molto elementare. Il secondo è locale, con cittadini di paesi mediorientali poco più anziani dei precedenti, scarsamente istruiti e con una conoscenza molto più approfondita, per quanto estremista, del Corano e della Shari’a.
Un elemento in comune tra i due gruppi sembra essere dato dalla situazione lavorativa, con molti individui disoccupati o con un’occupazione magari sotto-qualificata rispetto al livello di studi raggiunto, sebbene possano provenire anche da famiglie benestanti. Un mix sociale che, soprattutto in Medio Oriente, può tradursi in aperta simpatia verso chi afferma di combattere contro un sistema che sembra causare proprio tali disagi sociali.
Medio Oriente: cause politiche
Appaiono evidenti alcuni elementi politicamente rilevanti. Il primo è dato dall’inserimento dei gruppi jihadisti in un più ampio quadro geopolitico in cui gli attori principali sono inizialmente altri. Nel caso del Medio Oriente contemporaneo, è possibile individuare tali attori nei grandi stati sunniti, così come, di converso, in quelli sciiti, in un gioco di azione e reazione che ha come posta in palio il ruolo di leader regionale.
Con riguardo al jihadismo sunnita, Arabia Saudita e Turchia sono stati sospettati di aver agevolato l’ascesa di gruppi, quale è lo Stato Islamico, in uno schema geopolitico che ha come obiettivo il contenimento dell’Iran sciita o del nazionalismo curdo. Tuttavia, quale che sia il fine di tale schema, è possibile immaginare come quest’ultimo possa tornare a riproporsi fintanto che non venga raggiunto un nuovo equilibrio all’interno della regione mediorientale. E un simile equilibrio non può essere frutto di decisioni unilaterali, ma solo di una ponderata concertazione che possa riunire attorno ad un tavolo i principali attori regionali.
Un obiettivo chiaramente ambizioso, ma, proprio perché tale, è imprescindibile che venga fatto ogni sforzo in tal senso, tanto da parte dei paesi direttamente coinvolti, quanto, e forse soprattutto, da parte delle cancellerie internazionali. Il secondo elemento è dato invece dall’humus sociale in cui crescono tali gruppi, dato che, in riferimento ai jihadisti locali, questi provengono da situazioni sociali e culturali estremamente svantaggiate. Al di là delle scelte individuali, istruzione e lavoro sono, ancora una volta, i pilastri su cui poter far poggiare un rilancio sociale mediorientale, togliendo al terrorismo islamico una parte rilevante della propria linfa vitale. La soluzione al problema del jihadismo, dunque, non può essere solo militare, rischiando di perpetuare in questo modo i problemi visti poc’anzi. La soluzione è e deve essere politica e tesa al superamento degli elementi che sinora hanno prodotto l’insorgenza di tale fenomeno.
Emanuele Bussi