Sono stati presentati il 9 luglio a Roma i risultati della grande inchiesta “Ricercarsi”, promossa nei mesi scorsi dalla Federazione dei lavoratori della conoscenza della CGIL per fornire un quadro della situazione occupazionale e sociale dei precari della ricerca accademica nel decennio 2003-2013.
I numeri acquisiti delineano con precisione un quadro già in parte intuibile da rilevazioni parziali precedenti: in dieci anni, a causa della necessità di sostituire in qualche modo le posizioni a tempo indeterminato non riproducibili dopo il pensionamento del “titolare”, le posizioni precarie di varia natura sono passate, a regime, da 18.000 a oltre 30.000, ritornando rapidamente ai livelli del 2010 dopo che la riforma Gelmini, bloccando i bandi in attesa dei regolamenti attuativi, aveva creato un collo di bottiglia negando per anni uno stipendio a circa ventimila studiosi i quali, evidentemente, hanno continuato a lavorare pur non essendo pagati e sono tornati, non appena possibile, al punto di partenza.
E c’è da supporre che le stesse persone finiscano in un collo di bottiglia decisamente più drammatico, perché definitivo, dopo che i termini stringenti della legislazione in vigore li avranno condotti ai limiti dei rinnovi possibili delle posizioni precarie senza possibilità di accedere a ruoli strutturati. Infatti, degli oltre 65.000 studiosi che hanno ricoperto posizioni precarie nel decennio in questione, solo il 7% circa ha trovato spazio negli atenei a tempo pieno e indeterminato. Questo dato, che di solito ha impressionato i giornalisti che si sono interessati alla rilevazione, necessita però di essere contestualizzato. Se infatti una trafila di un certo tempo è necessaria in vista della stabilizzazione (e quindi è fisiologico che chi ha ottenuto contratti precari solo a partire dagli ultimi anni non abbia ancora occasione di un posto fisso), la questione si fa preoccupante se una percentuale così magra si innesta su dati come la quantità di contratti che è necessario mettere in fila per la sopravvivenza (in media 6-7 per ricercatore, ma oltre il 10% ha dovuto finora arrabattarsi con oltre 15 posizioni precarie di pochi mesi), e di conseguenza la tendenza dei precari più “anziani” a rimanere sullo stesso “mercato” degli ultimi arrivati, intasandolo anno per anno con una coorte di “resti umani” composta dalla quasi totalità della propria generazione.
In effetti, al di là della scarsissima capacità degli atenei di assorbire i propri prodotti più pregiati, i ricercatori precari si trovano di fronte a un mondo del lavoro decisamente ostile alle specificità di personale così preparato: nel campione degli intervistati, abbastanza rappresentativo, la percentuale di chi dopo uno o più contratti di ricerca ha definitivamente abbandonato l’università è più che doppia di chi vi ha trovato una collocazione definitiva (16%), ma comunque minoritaria rispetto a chi resta comunque nel “limbo” del precariato. E il fatto che restare in attesa alla caccia di posizioni contrattuali fragilissime resti comunque un’opzione per così tante persone anche a diversi anni dal dottorato diventa più comprensibile analizzando la composizione di quel 16%: per oltre metà di loro la scelta non è stata ponderata cercata, ma semplicemente il frutto di una prolungata impossibilità di trovare posizioni di ricerca alla scadenza dell’ultima, e in totale solo i 2/3 di coloro che sono usciti dalla trafila accademica riescono a usare nel nuovo ambito professionale le elevate qualificazioni acquisite.
Completano il quadro, come è prevedibile, gravi notazioni sulle conseguenze socio-culturali di questa situazione strutturale, dalla scarsa soddisfazione professionale che impedisce il raggiungimento di risultati più solidi sul piano del contributo alla conoscenza, alla costante percezione di sentirsi “fuori” posto in un ambiente ancora “pensato” da e per i professionisti di ruolo, e in cui anche sul piano progettuale i precari equivalgono sostanzialmente ad attrezzature di lavoro usa-e-getta, fino alle rinunce sul piano familiare e sentimentale, vista l’elevatissima quota di intervistati (rappresentanti di una generazione che va dagli anni intorno i 30 fino a oltre i 40) che non ha figli.
Fin qui il quadro della situazione: ora, che fare? La reazione più immediata e forse più facilmente comprensibile per le istituzioni italiane è quella di un’istanza sindacale di categoria: una volta individuati i precari, bisogna tirare fuori i soldi o per assumerli, o per sussidiarli. Probabilmente è questo che pensano alla Flc CGIL, visto che è in questo modo che hanno sempre agito i loro colleghi, un po’ di tutte le sigle sindacali, quando si è trattato di affrontare ristrutturazioni, anche in casi recentissimi e ben noti. L’unica ragion d’essere dell’interlocutore dei “rappresentanti dei lavoratori”, sia esso pubblico o privato, è quella di acquistare lavoro: se lo fa, compie il suo dovere, e non ha alcuna importanza quali siano i suoi risultati, come stia sul mercato locale e globale, ecc. Se non lo fa, lo si condanna, e si va dal governo, “pagatore di ultima istanza”. È con la promozione di atteggiamenti simili, del resto, che i sindacati si sono guadagnati il ruolo storico di responsabili di primo piano della situazione in cui versa in generale il paese, e in particolare proprio i settori dell’educazione e della ricerca, ambito in cui tra l’altro alle sigle rappresentative di essersi svegliate per la tutela degli interessi dei precari ora che serve massa critica per agitazioni di natura e a partecipazione più generale, dopo aver fatto finta di non vedere per anni, tutte concentrate nella tutela dello status insostenibile “acquisito” da gran parte degli assunti. In questo caso un atteggiamento del genere, oltretutto, rischierebbe di danneggiare ulteriormente la già delicata posizione dei precari in una difficilissima trattativa per la loro sopravvivenza, perché appiattendosi su pratiche già mostratesi fallimentari nel lungo periodo (anche a fronte di qualche successo immediato delle rivendicazioni) sottovaluta gli enormi spazi di impiegabilità delle loro forze in una seria ricostruzione del comparto accademico e del suo ruolo nella società.
Partiamo infatti dal presupposto, non ovvio anche per molti addetti ai lavori, che la presenza così intensa di studiosi con contratti “atipici” negli atenei è dovuta al fatto che la loro attività serve, ed è anzi essenziale per dare alla didattica universitaria un livello minimo di efficacia, impedendo che i soli docenti di ruolo finiscano soffocati da un rapporto docenti/studenti insostenibile, e per dare alla nostra ricerca, almeno in alcuni settori a costo medio-basso, una produttività di adeguato livello internazionale. È però altrettanto chiaro che se attraverso l’impegno dei precari sono riuscite a sopravvivere e a non essere di fatto cancellate le due fondamentali funzioni dell’accademia, ovvero la formazione degli studenti alle competenze culturali e professionali superiori e lo sviluppo della conoscenza tramite la ricerca, esse non mostrano un impatto soddisfacente sulla società italiana e sul suo ruolo nel mondo. Ed è proprio per consolidare la loro qualità che gli attuali precari possono trovare uno spazio non occasionale.
In primo luogo, i diplomati delle scuole secondarie, che già arrivano all’università con tare sempre più gravi tanto nella qualità “informativa” dei contenuti delle materie liceali fondamentali, quanto nelle capacità di alfabetizzazione complessa, comprensione del testo e familiarità con metodi e problemi scientifico-matematici, vivono l’esperienza universitaria abbandonati a se stessi, raccolti in corsi affollati e dispersivi in cui la verifica del progresso culturale è ridotta al minimo, e in cui, laddove avviene, la partecipazione di più studiosi all’attività didattica è decisamente sconnessa, non articolata in termini coerenti, gestita in termini informali e quasi “abusivi”, e pensata più in termini di “supplenza” del titolare che di pluralizzazione delle esperienze e dei passaggi di costruzione della competenza. Il risultato, sempre più spesso, è quello di masse di laureati che non solo non hanno acquisito in forma sufficientemente solida i programmi di studio previsti, ma non hanno neppure risolto i problemi generati dalle tare nell’apprendimento precedente, presentandosi, in definitiva, persino meno preparati rispetto al diploma di maturità.
Ferma restando la necessità di una riforma che renda mediamente più efficienti i risultati dei percorsi delle scuole medie, l’università può prospettare un proprio contributo più sostanzioso attraverso un deciso cambio di strategia nell’insegnamento, con un maggiore coinvolgimento degli studenti in attività seminariali di gruppi medio-piccoli, con una verifica delle acquisizioni delle diverse discipline più cadenzata, una più precoce attività di orientamento che non sia solo di autopromozione, con un rapporto più intenso di scambio one-to-one. Per tutto questo, servono “braccia” ed energie ora chiaramente sottoutilizzate o quantomeno male utilizzate, proprio perché messe in campo senza costrutto e quasi “di straforo”, anche per colpa di una legislazione che, non concependo la partecipazione dei giovani studiosi all’attività didattica se non in termini di “sfruttamento” da parte di chissà quale “barone”, l’ha di fatto vietata, negando ai precari un momento di affermazione del loro ruolo potenzialmente decisivo. Proprio sulla necessità per gli atenei di dare continuità alla collaborazione con personale di provata esperienza nel coinvolgimento degli studenti nell’“ecologia” disciplinare, infatti, si potrebbero basare posizioni non “consacrate” dall’intangibilità di un responso concorsuale (che peraltro occorrerebbe ridiscutere proprio per la tendenza di certe pratiche a creare privilegi che nulla hanno a che vedere con l’apertura e la democraticità sottesa a tale procedura di selezione), ma dotate di adeguato respiro e della necessaria “tranquillità” per svolgere con una squadra affiatata un progetto educativo a medio termine senza restrizioni artificiose.
A questo punto, di particolare interesse tra i cultori delle discipline umanistiche e sociali e in generale dei campi a scarsa intensità di lavoro di laboratorio, si deve aggiungere anche un altro elemento. Si è infatti visto che il mondo produttivo italiano appare strutturalmente inadeguato a sostenere programmi di ricerca e sviluppo. Le cause sono profonde, e riguardano essenzialmente l’abitudine di molti settori a sterilizzare la competizione attraverso il controllo più o meno diretto della concorrenza interna e il ricorso alla “droga” di rapporti opachi con le istituzioni pubbliche, pronte a rilasciare sussidi o ad ordinare commesse “arrangiate” in qualche modo a sostegno di realtà altrimenti in difficoltà. La soluzione di lungo periodo non può che essere la costrizione di gran parte del nostro capitalismo a confrontarsi con la competizione globale sulla qualità, e quindi ad attrezzarsi a tale fine, generando rapporti di collaborazione con il mondo delle conoscenze avanzate, o a togliere il disturbo fallendo e lasciando il posto a chi avrà l’intelligenza di attrezzarvisi.
In prospettiva un rafforzamento dei centri di ricerca interni all’università o riuniti in strutture “parallele”, fino a svolgere attraverso collaborazioni ad hoc un ruolo di supplenza delle sezioni di R&D mancanti, è senz’altro necessario, e in alcune realtà particolarmente vivaci si vedono esperimenti molto interessanti in tal senso. Si tratta, però, di casi ancora minoritari, immersi in uno standard di autorferenzialità e di programmazione individuale a brevissima scadenza, ben espressa da quel dato per cui l’84% dei precari sente il proprio lavoro pesantemente condizionato dalla propria situazione occupazionale. Per portare avanti programmi di buon impatto applicativo extra-accademico, di nuovo, serve la possibilità di contare su una certa stabilità dei rapporti anche interpersonali tra chi è impegnato in tutte le parti coinvolte.
In tutti i casi, insomma, il colpevole vuoto di investimenti in conoscenza che ha creato ormai due generazioni di professionisti caratterizzate dall’incertezza e dalla precarietà occupazionale ed esistenziale si è accompagnato, e spesso ha tratto la propria giustificazione a protrarsi, dall’assenza di uno sforzo strategico degli atenei e dei centri di ricerca, troppo impegnati in richieste del tutto diverse da quelle relative agli strumenti giuridici e contrattuali necessari a curare un rilancio della loro attività. Senza un cambio di passo a tale livello, difficilmente ci sarà giustificazione, e quindi speranza, per un mutamento di tendenze sul piano finanziario.