Radicali o popolari? Sulla forma dell’impegno politico
In campagna elettorale occorre riflettere non solo sui contenuti delle diverse proposte ma anche sulla forma dell’impegno politico. Con tale formula mi riferisco alla visione di fondo da cui si pensa il rapporto tra fine e mezzi e l’identità profonda dell’elettorato. Riflettere sulla forma, dunque, significa attingere alle motivazioni profonde dell’agire politico. Come distinguere le diverse forme dell’impegno pubblico? Tale interrogativo non investe solamente il candidato ma ogni cittadino; egli, in base alla Costituzione, non è un consumatore del bene comune, bensì un attivo costruttore di esso attraverso l’informazione, l’impegno, l’approfondimento.
L’opzione fondamentale
Proprio in queste radici profonde della visione politica, l’opzione fondamentale si riduce a una: radicali o popolari. Non ci riferiamo, naturalmente, ai movimenti o partiti ma nemmeno alle tradizioni italiane che hanno assunto tali nomi nel corso della storia unitaria. Il discorso non si muove su un piano di mera diatriba storica ma su quello più profondo della filosofia politica; ovvero sulla valutazione dei fondamenti e dei presupposti dell’impegno e della scelta politica. In questo senso, allora, essere radicale o popolare è un atteggiamento trasversale alle forze politiche o alle visioni ideologico-religiose. Ci riferiamo, come abbiamo chiarito poche righe fa, ad una visione e sensibilità di fondo. Cosa intendiamo, allora, per radicalismo e popolarismo?
Il radicalismo: il fine che giustifica e il popolino da convincere
Con visione radicale si fa riferimento a quella sensibilità, nata nel XVIII secolo all’interno del movimento liberale, per cui, nell’agire politico, è il fine a giustificare i mezzi. Se vale l’assunto machiavellico, allora, si è disposti a tutto quello che è più o meno lecito per vincere la battaglia elettorale; come, ad esempio, puntare su provocazioni, toni aspri e polemici, proposte e narrazioni che riducano il più possibile la complessità dei problemi.
A bene vedere tale sensibilità politica assume come dati fondanti due prospettive: la necessità, a tutti i costi, del successo e la visione dell’elettorato come popolino che, nella maggioranza dei casi, dà ascolto solo alla pancia. Tale impostazione richiede una percezione di sé e della propria ideologia molto ingombrante, quasi messianica (se la salvezza viene solo da noi, è fondamentale vincere, non importa quale ne sia il prezzo); e, invece, una visione dell’elettorato estremamente pessimista secondo cui non bisogna pensare alle persone come dovrebbero essere, ma come sono, e, quindi, parlare alla loro pancia.
Quale futuro per un messianismo pessimista?
Spesso, tuttavia, l’esito del radicalismo è tragico; dalla rivoluzione francese al fascismo (la cui matrice viene collocata, da uno storico come De Felice, proprio all’interno del radicalismo) questo messianismo pessimista ha avuto molti problemi con il dialogo, l’ascolto, la costruzione faticosa del bene comune e dunque con un futuro politico sostenibile. Il radicale è tale perché convinto che il destino del bene comune è totalmente nelle sue mani e nella sua proposta; o, per lo meno, è interessato a farlo credere. Non è una ricetta buona, quindi, per i momenti in cui occorre costruire dalle macerie, come può essere stato l’immediato secondo dopo guerra. Tuttavia ottiene buoni consensi, anche insospettabili, laddove la crisi di visioni sul futuro invoca un generico “fare” ma suscita una profonda incertezza.
Il popolarismo: il bene comune come mezzo-fine e il popolo sovrano
L’altra sensibilità è quella del popolarismo che, storicamente, è nata in Italia nel primo dopoguerra ma la cui visione di fondo è molto più ampia ed è rintracciabile nel cristianesimo democratico. Tale visione si innesta sul presupposto che ci sia qualcosa di più grande della propria ricetta politica, il bene comune, che non può mai essere totalmente posseduto da una parte politica, ma solo costruito grazie all’apporto e all’ascolto di quante più parti possibili. Guida il popolare la consapevolezza che il bene comune è tale per cui non può essere un fine slegato dai mezzi. Anzi, sono spesso i mezzi a far riconoscere il bene comune come fine. Questo perché il popolare sa che il fine dell’agire politico e della socialità umana è molto più grande dei suoi progetti; sono questi a doversi modellare ai primi, non viceversa.
Il politico, lo statista e il popolo
Da qui la consapevolezza che l’immediato successo elettorale sia importante, ma non è tutto. Questo il senso di una frase spesso attribuita ad Alcide De Gasperi, uno dei grandi della cultura popolare: «Un politico pensa alle prossime elezioni, uno statista alle prossime generazioni». Questa tensione di fondo porta a vedere nel popolo, soprattutto nell’escluso e nell’emarginato, un carisma particolare, grazie alla convinzione che nell’uomo ci sia una naturale capacità di bene, per quanto ferita e lacerata dalle condizioni economiche e sociali. Per questo il popolo è sovrano e tale aspetto non si riduce ad una scomoda postilla.
Questo vuol dire che per il popolare la propaganda non è importante? No, tutto il contrario: è talmente importante da non essere tutto, da essere semplicemente quello che è, uno strumento. E, in quanto tale, può essere usato lecitamente o meno perché non tutto è giusto da dire o da raccontare. Questa ricetta rischia di non avere molto successo nei periodi di incertezza; tuttavia è quella a cui ritorniamo quando costruire insieme all’altro è l’unica possibilità di sopravvivenza. Speriamo di sceglierla anche in tempi meno bui. Soprattutto, chiediamola a noi stessi, ai nostri politici, e ai tanti (troppi?) intellettuali che ascoltiamo.
Davide Penna per il blog Nipoti di Maritain