Quella distanza tra il Pd e governo sul licenziamento economico

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Quella distanza tra il Pd e governo sul licenziamento economico

 

La riforma del mercato del lavoro è ormai di pubblico dominio per quanto riguarda le sue linee guida. Ma dal punto di vista concreto non esiste ancora un testo scritto e la partita parlamentare, tesa ad ottenere qualche modifica del testo, sembra potersi giocare in campo aperto. Nonostante il viaggio di Monti nell’estremo Oriente sia già terminato.

[ad]Il governo, la scelta di aver scartato l’ipotesi del decreto legge lo testimonia, è consapevole della centralità del Parlamento. E del resto la regia del Capo dello Stato è presa in grande considerazione da Monti. Di conseguenza la rassicurazione di Napolitano a Lega Nord e Italia dei Valori sulla vigilanza nella correttezza degli iter legislativi non può che essere un monito anche per questo governo dei tecnici che deve sforzarsi nonostante la tempestività di certe decisioni di rispettare un equilibrio già stabilito.

Il ministro Elsa Fornero ha ribadito che modifiche alla riforma sono inevitabili. Ma il governo non accetterà mai stravolgimenti radicali del testo. E una presa di posizione comprensibile considerando che il testo delinea una chiara volontà dell’esecutivo su questo tema.

Ed è anche vero, aspetto sottolineato in ultimo dalla stessa Fornero al congresso nazionale Ugl il 30 marzo, che è profondamente ingiusto relegare l’ampia ed ambiziosa riforma del mercato al solo tema dell’articolo 18. Come se la riforma degli ammortizzatori sociali, dell’apprendistato e del macchinoso sistema contrattuale non esistessero.

Quello della Fornero è un invito alla verità e al ragionamento globale. Ma al tempo stesso è un segnale anche al Pd, molto scettico nei confronti della riforma dell’articolo 18. Infatti molte proposte sugli ammortizzatori sociali e sui sistemi contrattuali (in primis per quanto riguarda il tema dell’equiparazione monetaria del lavoro a tempo indeterminato con quello a tempo determinato) sono proposte perlopiù made in Nazareno. E un voto contrario nei confronti di Bersani non solo sarebbe un cataclisma per lo sorti del governo Monti, ma anche un atto politicamente molto incoerente.

Il tema spinoso dunque resta quello dell’articolo 18, soprattutto per quanto riguarda i licenziamenti economici. Il Pd chiede a gran voce un sistema alla tedesca. Addirittura con elementi alla “danese” (non ditelo a Fassina, assisterebbe ad un’implicita vittoria culturale del collega-rivale Ichino).

Il succo del discorso è che per il principale partito del centrosinistra italiano si vorrebbero potenziare le garanzie dei lavoratori in caso di licenziamento attraverso il ruolo del giudice che, ricordiamo, ha un ruolo preminente nella riforma soprattutto per quanto riguarda i licenziamenti disciplinari (e lui che decide se il lavoratore deve essere reintegrato o semplicemente indennizzato). Ma al tempo stesso il Pd si schiera contro il solo indennizzo per i licenziamenti economici e chiede anche in questa tipologia di licenziamento la possibilità da parte del giudice di delibare il reintegro del lavoratore. Al tempo stesso si chiedono misure per evitare abusi per quanto concerne tutte e tre le tipologie di licenziamento (cosa ribadita del resto dal ministro Barca e presa in considerazione, almeno a parole, dall’esecutivo).

La questione di fondo è che il Pd, indipendente dalle pressioni dirette o indirette che subisce da parte del mondo sindacale e in primo luogo da Corso d’Italia, risulta avere a quanto pare un’impostazione del tutto diversa da quella del governo su questo tema.

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[ad]E dunque la base di ragionamento per l’esecutivo è che il licenziamento economico è sbagliato se utilizzato per coprire un’altra modalità di licenziamento. Per fare un esempio: se un datore di lavoro si inventa un motivo disciplinare per il licenziare il suo operaio ma in realtà si scopre che si tratta di un mero motivo economico che ha spinto a quel gesto, il lavoratore deve essere indennizzato dalle 15 alle 27 mensilità. Sostanzialmente il datore di lavoro paga per il bluff, per aver mentito il lavoratore sulle vere ragioni che hanno spinto al licenziamento.

Perché dunque, a parte l’indennizzo, non il reintegro? Perché, assodato che non si tratta per esempio di un licenziamento disciplinare ma di carattere economico, chiedere il reintegro per motivi economici equivale sostanzialmente all’impossibilità da parte del datore di lavoro di licenziare un dipendente per motivi diversi da quelli discriminatori e disciplinari.

E forse questo ragionamento per il governo Monti rappresenterebbe la fine di una certa idea di libero mercato e di impresa privata.

In questa contraddizione stanno le distanze tra Pd e governo Monti sul tema dei licenziamenti. Distanze che però, per il bene del paese, sarebbe bene colmare in fretta.