Chi è contrario ad una clausola sociale nell’ordinamento del WTO, e perché?
A parole, qualunque governo è pronto a dichiararsi fortemente impegnato nel garantire il rispetto dei diritti fondamentali dei lavoratori e nel promuovere il benessere delle loro popolazioni. A parole, l’opposizione alla clausola sociale è argomentata sulla base della libertà del commercio: la proposta di riformare il WTO e avviare una graduale armonizzazione internazionale del diritto del lavoro è vista come fumo negli occhi dai governi dei paesi in via di sviluppo. Un’indebita ingerenza nelle loro questioni politiche interne.
Ora, che questi governi difendano la loro autonomia nel fare dumping è ovvio. Ma che l’Occidente non abbia portato avanti questa battaglia è assolutamente inconcepibile. Nelle negoziazioni al WTO, negli anni Novanta, questo tema è scivolato in sordina nel tepore indifferente della maggior parte dei governi europei e nordamericani. In parte gli USA, in parte Francia, Olanda, Danimarca e Norvegia spinsero per aprire un tavolo sulla questione dei diritti dei lavoratori nel nuovo contesto del commercio globalizzato. Ma più che una battaglia, fu una schermaglia negoziale. Una volta che l’Egitto o il Bangladesh hanno fatto la voce grossa, la proposta è stata mestamente ritirata.
Il punto è che, soprattutto all’interno del blocco occidentale (e all’interno di ciascun paese occidentale), la vera partita si gioca, ancora una volta, tra capitale e lavoro. Il capitale ha acquisito, negli ultimi decenni, la possibilità tecnica di spostarsi indifferentemente attraverso le frontiere. Quella exit option (di cui ho parlato qui), di cui dispone il capitale ma non il lavoro. Il rapporto di forza tra questi due fattori è stato quindi fortemente alterato, negli ultimi decenni, a favore del capitale.
Il capitale, la grande industria occidentale, ha aumentato il suo potere contrattuale e se ne sta ampiamente avvantaggiando. Delocalizza e, quando non lo fa, sfrutta la pressione del dumping sociale per aggredire il patrimonio di conquiste sindacali accumulato in due secoli di lotte. E spinge, ovviamente, per poter continuare a farlo. Perché il regime del commercio internazionale rimanga invariato e non tocchi la delicata questione dei diritti dei lavoratori.
Una clausola sociale nell’ordinamento del WTO sarebbe un pugno nello stomaco per le grandi imprese multinazionali e transnazionali. Non potrebbero più approfittare del sottosviluppo di molti, troppi paesi del mondo.
La clausola sociale non è un gioco “a somma zero”. Avrebbe dei vinti e dei vincitori. Ma vinti e vincitori non vanno cercati tra i governi nazionali, tra i paesi industrializzati o quelli in via di sviluppo. Non è questa la frattura rilevante. Vinti e vincitori vanno cercati, all’interno delle frontiere nazionali, tra i lavoratori e le grandi multinazionali, tra il capitale e il lavoro. E ancora, tra le imprese, tra quelle che delocalizzano e quelle che restano (nell’Occidente industrializzato), tra la grande multinazionale straniera e il piccolo imprenditore locale che cerca di affermarsi (nelle economie emergenti).
La clausola sociale altro non farebbe che riequilibrare il vantaggio acquisito dal grande capitale internazionale rispetto ai lavoratori e alle piccole e medie imprese radicate sul territorio.
Ecco perché non è stata ancora approvata.
–
Gli altri post del Ratto di Europa:
1. Il debito italiano e la ricchezza europea
2. Quando Europa è stata rapita
4. La scomparsa dell’industria europea
5. Tutta la roba migliore è fatta in Cina
6. Homo homini lupus: la trappola del dumping sociale
7. Crescita senza progresso: il destino delle economie emergenti
9. L’Europa che vorrei. A sinistra
10. Per un nuovo patto sociale, per una globalizzazione dei diritti
–
Per acquistare Il ratto di Europa:
su amazon.it
su ibs.it