Nietzsche e l’elogio dell’ozio. L’analisi dei celebri aforismi in “Umano, troppo Umano”

Pubblicato il 11 Febbraio 2018 alle 12:00 Autore: Salvatore Mirasole
Friedrich Nietzsche, filosofia, termometro accademico

Nietzsche e l’elogio dell’ozio. L’analisi dei celebri aforismi

Quando Nietzsche legge Erodoto o Tucidide, egli non mira all’ambizioso rigore in se e per se, ma ad uno stato dell’anima e, allo stesso tempo, ad una nobile utilità. Fine assai evidente soprattutto nel secondo, lo storico del pathos, il quale ammette, senza troppi giri di parole, che la sua opera dovrà costituire un beneficio per le generazioni future. Un possesso per l’eternità, più che un pezzo di bravura, sostiene lo storico ateniese ( Tuc. 1, 22, 4).

Friedrich Nietzsche e l’opposizione tra spirito libero e carattere forte

Quale beneficio, quale utilità dunque? L’orizzonte è sempre lo stesso, nella sua forma più alta: la comprensione del presente e dei suoi problemi. Tale prospettiva è in netta contrapposizione con quella degli accademici, degli scienziati dell’antichità, sia al tempo del Nietzsche che al nostro; nelle loro mani le discipline dimostrano ormai da tempo una notevole incapacità di ricollegarsi, sia pure in maniera non immediata, alle tematiche fondamentali della nostra società (Emanuele Narducci, 1976, p. 37).

L’uomo accademico, con la sua incontrastata fede nel rigoroso metodo scientifico, rappresenta tutto ciò che lo spirito libero , preludio al più celebre oltre-uomo, ha in odio. Vediamo dunque cosa si cela dietro questo simbolo, cosa il filosofo tedesco intendesse con la coppia oppositiva spirito libero/carattere forte, leggendo un breve estratto dall’aforisma 228 in “Umano, troppo Umano I. Parte Quinta. Indizi di cultura superiore ed inferiore”:

 

[..] All’uomo dal carattere forte manca la conoscenza delle molte possibilità; il suo intelletto non è libero, è vincolato, perché in un determinato caso gli mostra forse due sole possibilità; tra queste esso deve ora necessariamente scegliere, secondo tutta la sua natura, e fa ciò senza indugi, in quanto non deve scegliere tra cinquanta possibilità. L’educazione impartita dall’ambiente vuol rendere ogni uomo non libero, mettendogli davanti agli occhi sempre il minor numero di possibilità. Dai suoi educatori l’individuo viene trattato come se fosse sì qualcosa di nuovo, ma dovesse diventare una ripetizione.

 

L’uomo dal carattere forte in virtù di cosa, ci si potrebbe chiedere legittimamente. Ed ancora: forte rispetto a quale debolezza? Per una definizione ben definita, si legga l’aforisma 283, qualche pagina dopo:

 

[..] funzionari, commercianti, dotti, cioè come esseri generici, non come uomini affatto determinati, singoli, unici; sotto questo punto di vista sono pigri. Non si può ad esempio chiedere, al banchiere che ammucchia denaro, lo scopo di quella sua incessante attività: essa è insensata. Gli attivi rotolano come rotola la pietra, con meccanica stupidità.

 

Categoria fra le categoria, ciascuno di noi può essere l’uomo forte nel momento stesso in cui è docile fibra della società, i cui valori accetta senza spirito critico e ne diventa, a favore di essa, una maschera priva di valore nella sfera individuale. Che abbia il nome di dotto o apicoltore, è questione d’ordine infimo, costoro peccano dello stesso male: hanno annichilito il proprio io in un grigio fumo d’industria di cui sono divenuti atomica parte. Qui la forza dell’uomo contemporaneo secondo Nietzsche: nell’abbandono della propria libertà individuale che è, in primo luogo, de-responsabilizzazione.

Egli, l’uomo dal carattere forte, sacrifica se stesso ad una verità assoluta, espressione e prigionia della cultura dominante; con la creazione di questo vincolo, intorno al quale elimina se stesso, elimina la responsabilità di essere primo motore delle proprie azioni e scelte. Rotola semplicemente una grande pietra, compiacendosi del suo perpetuo girare sempre nella stessa direzione. La de-responsabilizzazione si applica nel momento in cui egli rimette la propria scelta non al suo intelletto, il suo lògos per dirla alla greca, ma ad una monolitica verità che la società impone.

L’importanza e centralità del pensiero greco in “Umano, Troppo Umano”

Il riferimento ai greci non è casuale, ed è ancor vivo in molti degli aforismi di Umano, Troppo Umano: nel periodo classico (e per classico qui si intenderà un po’ impropriamente l’Atene dei V-IV sec.) intorno all’antitesi responsabilità/de-responsabilità gravitava una discussione assai accesa, di cui Pericle, così come lo leggiamo in Tucidide, si faceva massimo interprete, invitando ogni singolo membro dell’assemblea (Boulé) ad assumersi la responsabilità di una decisione nefasta presa di comune accordo. È ferma opinione dello scrivente che Nietzsche avesse in mente i discorsi di Pericle, in particolar modo l’orazione funebre per i caduti del primo anno di guerra (Tuc. 2, 35-46), quando elaborava gli aforismi citati e i seguenti.

A tutto ciò si oppone lo spirito libero, alla de- responsabilizzazione dell’individuo in quanto tale, in funzione di se stesso innanzitutto. Lo spirito libero è un concetto relativo, dice Nietzsche (aforisma 225), egli è colui che pensa in modo diverso da come ci si aspetterebbe in base alle sue origini, al suo ambiente, al suo ceto sociale e al suo ufficio, o in base alle opinioni dominanti. Se l’uomo dal carattere forte è la fibra docile del sistema società, lo spirito libero è il suo errore. Il primo la regola, il secondo l’eccezione. Dinanzi a se ha molteplici prospettive, nell’incertezza della scelta in virtù della stessa ampiezza, prendono forma la sua libertà e la sua responsabilità.

Tale assunto è esplicitamente sostenuto dal Nietzsche con chiarezza (aforisma 230): lo spirito libero è frenato nell’azione dagli innumerevoli punti di vista che egli conosce, ha perciò mano insicura e maldestra. Come, dunque, rendere relativamente forte lo spirito libero (esprit fort) sì che superi le briglie del suo stesso intelletto e non perisca vanamente? Qui il discorso del filosofo si fa più oracolare e, astutamente, più cripticamente astratto e lirico; ecco cosa si dice a proposito dell’origine del pensiero libero e della sua forza (aforisma 232):

 

Come i ghiacciai ingrossano quando il sole, nelle zone equatoriali, arde sui mari con più violenza di prima, così anche una libertà di pensiero molto forte e irruente può esser segno che da qualche parte è straordinariamente aumentato l’ardore del sentimento.

 

Come se Nietzsche stesse parlando a pochi eletti, o volesse lasciare il problema aperto: troverà risposta l’animo vigoroso. Torneremo sulla necessità di un problema aperto alla fine di questo articolo, e forse ci sarà più chiara la forma con la quale il filosofo tedesco talora si esprime.

Il culto dell’ozio e la concettualizzazione classica, secondo Nietzsche

Il culto dell’ozio è un’ulteriore peculiarità dell’individuo libero; ma non credete però che con ozio e oziare Nietzsche si riferisca a voi perdigiorno (testuali parole del filosofo, aforisma 284). Ma più che d’ozio, occorrerebbe parlare di otium, così come gli intellettuali romani lo intendevano. All’otium si oppone il neg-otium; quest’ultimo potrebbe essere inteso come attività (da quella politica a quella commerciale), lavoro, occupazione. Vi è un pesante filo conduttore che lega tutte le accezioni del termine: il senso del dovere.

Tutto il tempo che l’uomo romano non dedicava al negotium lo dedicava all’otium dunque, che è pura in-attività contemplativa. Nell’otium Catullo scrive i suoi versi ad esempio e, quando umilmente Orazio chiede per se un angulus lontano dall’urbe, è al bisogno d’otium che fa riferimento. C’era anche chi elimina quest’antitesi, ma è un caso assai particolare: Cicerone, oratore, filosofo dagli echi stoici, ma soprattutto protagonista della politica, dalla quale non si è mai allontanato ad esclusione di una breve parentesi, a causa della morte della figlia. In otio de negotiis cogitare, sostiene in Off. 3, 1: nell’ozio pensare agli affari.

Facciamo un passo indietro e torniamo all’aforisma 283: qui Nietzsche, l’abbiamo visto, si scaglia contro gli attivi e contro l’attività, che egli reputa meccanica, alienante, insensata. Ed infine conclude:

 

[..] Tutti gli uomini si dividono, in ogni tempo e anche oggi, in schiavi e liberi: chi infatti non ha per se i due terzi della giornata, è uno schiavo, qualunque cosa sia, politico, commerciante, funzionario, dotto.

 

Ciò che inizia a sembrare chiaro, dalla lettura di “Umano, troppo umano”, è che Nietzsche non accetti in alcun modo la cultura dominante del tempo, l’industrializzazione che dalle fabbriche passa alla vita, al sapere, dunque all’individuo che smette di essere tale. La novità individuale viene trattata alla stregua di un errore da risolvere, da semplificare in qualcosa di già noto, conoscerlo; non appena egli è conosciuto, diviene un altro anello da aggiungere alla catena sociale. Conoscere qualcuno non per amor di conoscenza, ma per eliminare lo spessore del suo io e imprigionarlo.

Theodor Adorno: da colloquio di Darmastad (1953), Individuo e organizzazione nel mondo amministrato

Nietzsche: cosa resta dell’aforisma

Si tratta di una condizione di servitù il cui padrone ha nome irrequietezza moderna (aforisma 285); gli uomini non liberi s’agitano e ronzano come api e vespe. Gli attivi, il filosofo prosegue, mai come oggi hanno goduto di tanta considerazione. E mai hanno così disprezzato la vita contemplativa che è l’esistenza di chi vive di mera conoscenza.

L’oggi a cui si fa formale riferimento è il 1878, anno di pubblicazione del testo; ma oltre la forma, cosa resta, quale oggi? Possiamo sostenere simili posizioni per l’uomo moderno, nostro contemporaneo? I nostri politici, i nostri dotti, i nostri banchieri? Sono costoro ronzanti vespe ed api le quali disprezzano la vita contemplativa e la conoscenza? Viviamo di otium o negotium? Forse facciamo come Cicerone: quando stiamo in otium, pensiamo agli affari. Forse il suo riflesso speculare: quando lavoriamo, pensiamo all’otium o al moderno ozio (che è perdere tempo). Si dovrà dare una (non)risposta a tali quesiti e, a molti altri, con le parole di un filologo che ricoprì a Basilea, nel 1914, la stessa cattedra che fu di Nietzsche, Werner Jaeger (“Gnomon”, 1951, p. 247):

 

Ciò che veramente importa [..] sono i problemi, e il meglio che possiamo fare è di lasciarli aperti e di trasmetterli aperti alle generazioni future.

 

Si lascerà così il lettore libero di avere la propria opinione, particolare e irripetibile, sperando che possa assumere, rispetto alla sua società, una posizione nuova e mai esistita prima.

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