Di lo Scorfano:
L’immaginario adolescenziale è spesso confuso e imprevedibile. Più piccoli sono i ragazzi, più il loro immaginario è appena accennato, impreciso, con contorni sfumati in continuo e quotidiano movimento, come se una parola appena un po’ più violenta delle altre potesse bastare a modificarne i centri di gravità e le pulsioni fondamentali. Ecco, mi dico, perché anche la loro lettura della realtà è spesso così torbida, precaria e volubile: perché, come chiunque, anche loro leggono e interpretano la realtà che li circonda a partire dall’immaginario che si sono costruiti e che detta i tempi e i modi della loro lettura. E a un immaginario instabile fa riscontro una lettura della realtà altrettanto instabile.
Ed ecco anche perché, mi dico, questi adolescenti giovani (intendo i ragazzi di prima, per capirci) sono anche così fragili e delicati:
fiori appena sbocciati e, se mi passate la trita metafora (che ve lo assicuro, non è affatto né retorica né esagerata: purtroppo è così, la verità), troppo facili da strappare via o da far rapidamente appassire: sono così fragili e così delicati perché basta un nonnulla a deviarli, a piegarli nella direzione che si vuole, a plasmarli nel bene ma anche nel male, a farne ciò che forse loro non vorrebbero mai essere.
E però, nonostante tutto questo (che resta vero, ma non è tutto), anche il loro immaginario ha impreviste e adamantine e irresistibili solidità. Contro cui ci si può solo scontrare e che non vengono scalfite da alcuna possibile parola. E uno di questi intoccabili spigoli è il «successo», non c’è niente da fare. Il «successo» (inteso soltanto come fama, celebrità) è per loro la certezza, l’inossidabile sicurezza, la verità, la forza, il significato, la meta, il punto di arrivo, uno su mille ce la fa ma ne vale sempre la pena, inseguire il proprio sogno che è sempre e soltanto un sogno di fama e di successo.
Non sono i soldi, quasi mai. Non è nemmeno l’amore, non per tutti. È il successo, invece: la fama che spezza (io credo) le catene della loro appena percepita mortalità. È colpa loro? No, naturalmente: è colpa nostra. Benché forse non sia nemmeno una colpa; e se invece lo è, siamo comunque noi che, chissà come e chissà quando, glielo abbiamo insegnato. E adesso, quando hanno quattordici anni, provare a insegnargli il contrario (o qualcos’altro) sembra impossibile, davvero. Fragili in tutto, sono però inespugnabili in questa loro certezza: che avere successo risolve qualunque problema, che il successo è la chiave di tutto, che se diventeranno in qualche modo famosi di altro non dovranno mai più preoccuparsi perché saranno felici. Questo è per loro il «successo»; e non, come provo invano a spiegargli io, il participio passato del verbo succedere.
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