Jean-Claude Juncker è stato eletto presidente della Commissione Europea. Con una larga maggioranza (422 favorevoli, 47 astenuti e 250 contrari), maggiore dei 376 voti richiesti, l’ex premier lussemburghese nominato dal Consiglio Europeo è stato eletto al vertice della principale istituzione comunitaria.
Un popolare, europeista convinto, presidente dell’Eurogruppo per ben sette anni, sostenuto apertamente dalla cancelliera tedesca Merkel, guiderà l’esecutivo comunitario per i prossimi cinque anni. È questo, infine, l’esito delle elezioni europee di fine maggio.
Delle elezioni “storiche”, per molti versi. Per la prima volta, infatti, la nomina del presidente della Commissione (che rimane prerogativa del Consiglio Europeo, composto dai capi di Stato e di governo dei ventotto paesi membri) tiene conto dei risultati delle consultazioni per il Parlamento Europeo. Una novità introdotta dal Trattato di Lisbona approvato nel 2007. Un’occasione di fondamentale importanza per “politicizzare” l’UE. Collegare gli esiti delle elezioni europee alla scelta del presidente della Commissione significa attribuire un significato politico tanto a quelle elezioni quanto alla Commissione stessa, che in passato ha sempre risposto ad un non meglio definito “interesse comunitario”, politicamente sterilizzato. La Politica fa il suo ingresso in Europa, finalmente.
I partiti europei (o, meglio, le confederazioni partitiche europee) hanno fatto la loro parte nel politicizzare la campagna elettorale designando i loro candidati alla presidenza della Commissione. Juncker, Schulz, Tsipras, Keller e Verhofstadt hanno girato l’Europa facendosi conoscere e cercando consensi. Si sono confrontati in tv. Hanno presentato un programma e ci hanno messo la faccia.
L’elezione di Juncker è il classico bicchiere mezzo pieno, da questo punto di vista. È stato eletto un candidato “designato”, che ha partecipato alla campagna elettorale. Non è un risultato da poco, è vero, considerando che all’indomani delle elezioni da più parti, nel Consiglio Europeo, si rivendicava il diritto di compiere scelte diverse rispetto a quanto proposto dai partiti in campagna elettorale. Sarebbe stato un grave passo indietro, ma è stato scongiurato.
Ma Juncker è stato il candidato che ha meno personalizzato la sua campagna elettorale. Il meno visibile, probabilmente. Forte di una probabile vittoria (da vent’anni i socialisti non superano i popolari nelle elezioni europee), Juncker ha badato più a non deludere che a convincere. È stato attento a non strafare, a non bruciarsi. Non ha potuto attaccare l’austerity per non inimicarsi le cancellerie dell’Europa Settentrionale, ma non l’ha potuta difendere a oltranza per non precludersi il sostegno dei socialisti dopo le elezioni.
Sostegno che si è reso puntualmente indispensabile all’indomani dei risultati elettorali. I popolari hanno perso consensi in modo consistente, e a meno di proporre un’impensabile ammucchiata di destra con i liberali e gli euroscettici dell’ECR e dell’EFD, la grande coalizione con i socialisti è stata ancora una volta obbligata.
Ancora una volta, perché storicamente socialisti e popolari hanno sempre cooperato nel sostenere l’esecutivo comunitario. Ancora una volta, quindi, l’affermazione di una tradizionale dialettica destra-sinistra in Europa è stata rinviata. Ancora una volta, la Commissione (e l’Unione Europea nel suo insieme) rischiano di non passare il guado e di restare attorniate da un’aurea di tecnicismo burocratico. I grandi temi europei, l’economia, il lavoro la gestione della crisi, l’energia, le relazioni esterne, lo stesso destino del processo di integrazione rimangono sullo sfondo, come esentati da un serio confronto politico che riguarda il futuro di una comunità di mezzo miliardo di persone.
Paradossalmente, il dibattito politico sta entrando in Europa sulla base di un’altra frattura: l’Europa stessa. La vera contrapposizione di queste prime elezioni “politiche” europee è stata tra euroscettici e sostenitori dell’Unione. E si è riprodotta, identica, in occasione del voto su Juncker. Le forze contrarie all’Euro e all’Europa avanzano, come mai prima d’ora. Popolari, socialisti e liberali fanno quadrato intorno alla conservazione dell’esistente. Euroscetticismo e “consociativismo europeista”, insomma. Non tira una buona aria, per l’Europa.
Andrea Scavo