Copia privata: le bugie sull’equo compenso finiscono in Parlamento
Il tema del vertiginoso aumento delle tariffe, disposto con un decreto del 20 giugno scorso dal ministro Franceschini sull’equo compenso percopia privata – il prelievo forzato cui lo Stato, per il tramite della Siae, procede sulle vendite di tutti gli smartphone, i tablet, i pc, le pennette usb ed ogni altro analogo dispositivo o supporto semplicemente idoneo alla registrazione di contenuti audiovisivi –non smette di far discutere.
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“L’equo compenso su copia privata non deve ricadere sui consumatori”, ha detto, ieri,rispondendo ad un’interrogazione parlamentare di Lara Ricciatti (Sel) il ministro dei beni e delle attività culturali, Dario Franceschini. Una dichiarazione che fa il paio con quella rilasciata all’Ansa, l’altro ieri, dallo stesso ministro, che aveva detto: “I consumatori non avranno alcun aumento di prezzo”.
E’ un’affermazione grave, ipocrita e, soprattutto falsa, che il Ministro dei beni e delle attività culturali va ripetendo sin dal giorno della firma del decreto nel disperato tentativo di disinnescare la reazione di cittadini e consumatori che, giustamente, non si rassegnano all’idea di dover pagare oltre 150 milioni di euro – alla fine del prossimo anno secondo le stime di Confindustria Digitale – sul solo presupposto che, forse, alcuni di loro, utilizzeranno alcuni dei dispositivi e dei supporti oggetto del prelievo forzoso anche per fare qualche copia personale di musica e film, legittimamente acquistati online o – nei rari casi in cui ancora avviene – su cd o dvd.
L’equo compenso per copia privata, infatti, lo pagheranno proprio i consumatori come, peraltro, accade da sempre in Italia e nel resto d’Europa e come, d’altra parte prevede la legge nel nostro Paese e nel resto d’Europa.
Sorprende, dispiace e, per la verità, offende, pertanto, che un ministro della Repubblica vada in Parlamento a giustificare una propria scelta politica facendosi scudo dietro ad autentiche menzogne istituzionali e provando a presentare una questione che riguarda milioni di italiani come una partita tra l’industria dei contenuti e la ricca industria dei telefonini, dei tablet e dei pc.
Come può un ministro “assicurare” ai consumatori che non saranno loro a pagare oltre 150 milioni di euro, dopo aver ascoltato le parole di Elio Catania, Presidente di Confindustria Digitale che, nei giorni scorsi, ha detto senza timidezze ed esitazioni che la misura degli aumenti tariffari disposti dal ministro è tale che i produttori di supporti e dispositivi non potranno assorbirla e dovranno necessariamente ribaltarla sui consumatori finali?
Come può un ministro della Repubblica rassicurare i consumatori sul fatto che non toccherà a loro mettere mano al portafoglio per pagare l’equo compenso per copia privata, sapendo perfettamente che in Francia – Paese al quale, anche ieri in Parlamento, ha fatto riferimento come ad un esempio cui guardare – la legge, dal primo aprile, obbliga addirittura chi vende smartphone, tablet, pc e pennette usb ad evidenziare, accanto al prezzo di vendita, la quota parte che il consumatore deve pagare come equo compenso per copia privata?
Ma non basta.
L’affermazione secondo la quale l’equo compenso per copia privata non lo pagheranno i consumatori oltre a non corrispondere al vero contraddice, platealmente, anche un’altra affermazione difensiva del ministro ovvero quella secondo la quale non si tratterebbe di una “tassa sui telefonini”. Delle due l’una – ed è grave che nessuno dei consiliori del Ministro glielo faccia notare – o l’equo compenso lo pagano i consumatori ovvero chi, almeno astrattamente, potrà usare il dispositivo o il supporto acquistato per farsi una copia in più della musica o del film che ha acquistato o, l’equo compenso per copia privata diventa una tassa bella e buona perché si chiede di pagarla a chi – come i produttori di smartphone, tablet e pc – non ha niente a che vedere con le copie private che verranno fatte o non fatte dagli utenti finali.
Non c’è dubbio, infatti, che se lo Stato obbliga un comparto industriale a mettere mano al portafoglio per finanziare – fosse anche in modo equo e legittimo – un altro comparto industriale senza tuttavia che il primo abbia, in partenza, alcun debito verso il secondo, l’obbligo imposto dallo Stato non può che chiamarsi “tassa” e, quindi, nel nostro caso tassa sui telefonini, sugli smartphone, sui tablet e sui pc.
Ma tassare la tecnologia in un Paese, come il nostro, il cui spread digitale già costa 10 milioni di euro al giorno ovvero 3,6 miliardi di euro all’anno secondo il Censis, è scelta politica che deve essere basata su ragioni davvero buone e solide.
Il ministro Franceschini, quindi, deve scegliere: o l’equo compenso per copia privata è unindennizzo – sebbene preventivo – per l’eventuale e futura copia che ogni consumatore può fare della musica e dei film che acquista e allora deve avere il coraggio di dire che sta chiedendo a milioni di italiani di versare all’industria dei contenuti oltre 150 milioni di euro all’anno o, l’equo compenso è un’autentica tassa e, allora, il ministro deve assumersi la responsabilità di aver scelto di supertassare la tecnologia in un Paese digitalmente sottosviluppato.
Ad un ministro si può perdonare un errore per essersi lasciato guidare dai consiliori sbagliati ma non si può perdonare di mentire ai propri cittadini per giustificare un proprio errore.