Copia privata, paga anche la Pa? Lo scandalo si ingrossa
La vicenda dell’equo compenso per copia privata le cui tariffe sono state appena aumentate dal ministro dei Beni e delle attività culturali,Dario Franceschini è una di quelle epopee moderne nelle quali ogni volta che si ha l’impressione di averne finalmente raccontato ogni dettaglio, emergono nuovi elementi e profili che le rendono ancor più gravi, inquietanti ed indigeste.
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Accade così che navigando nelle pagine del sito della Siae, si scopre che la gloriosa società autori ed editori alla quale la normativa affida, tra l’altro, il compito di “promuovere protocolli…al fine di praticare esenzioni oggettive o soggettive, come, a titolo esemplificativo, nei casi di uso professionale di apparecchi o supporti” non ha, tra gli altri, mai adottato il più ovvio di tali protocolli ovvero quello che sarebbe necessario per sollevare la pubblica amministrazione dall’obbligo di pagare l’equo compenso per copia privata giacché certamente le amministrazioni non comprano – o almeno non dovrebbero comprare – pc, smartphone, tablet e hard disk per copiarci sopra musica e film!
Il risultato è che, ormai da anni, la pubblica amministrazione italiana e, quindi, ministeri, comuni, regioni, province, università, scuole, ospedali, forze di polizia, tribunali e ogni altra amministrazione dello Stato non hanno altra alternativa, ogni qualvolta comprano un cd, un dvd, una pen drive, un pc, un tablet o uno smartphone che ritrovarsi l’equo compenso per copia privata compreso nel prezzo di acquisto del supporto o dispositivo e poi, in teoria, chiedere a Siae il rimborso di quanto indebitamente versato.
C’è però il sospetto – e per averne la certezza basterà attendere che Siae risponda alle dieci domande che abbiamo posto da queste sesse colonne – che, in realtà, la parte delle pubbliche amministrazioni italiane, paghi l’equo compenso per copia privata, “dimenticandosi” poi di chiederne a Siae il rimborso.
Milioni e milioni di euro, in questo modo, lasciano le casse, già povere, delle nostre amministrazioni alla volta dei forzieri della Siae, la quale, dal canto suo, fa, naturalmente, di tutto per rendere difficile la vita alle poche amministrazioni che si ricordano di chiedere il rimborso, giacché, attraverso il proprio sito internet, le informa – del tutto illegittimamente ed arbitrariamente – che il rimborso può, al massimo essere chiesto entro novanta giorni dalla fine del trimestre nel quale si è versato l’equo compenso.
Naturalmente non è così, e Siae non ha alcun diritto di imporre limitazioni o decadenze a chi abbia il sacrosanto diritto di ottenere il rimborso di quanto indebitamente versato ma, le indicazioni di Siae, ovviamente, rappresentano un efficace deterrente. Accade così che Siae trattiene somme che, in realtà, non avrebbe mai dovuto incassare e che, non restituendo tali somme, si assicura – ancorché a titolo dichiarato di “rimborso costi di gestione” – centinaia di migliaia, se non milioni di euro in più.
E’ una brutta storia in un’altrettanto brutta vicenda perché c’è un pezzo del para-Stato – la Siae è un ente pubblico economico – che approfitta della pigrizia e dell’ignoranza della legge da parte delle amministrazioni dello stesso Stato, per arricchirsi – ed arricchire i soggetti che rappresenta – alle spalle di queste ultime. Il paradosso è che, in questo modo, i cittadini – sui quali secondo la Siae e secondo il ministro Franceschini l’equo compenso per copia privata non ricadrebbe affatto – finiscono, addirittura, per pagarlo due volte: una quando comprano un pc, un tablet o uno smartphone e un’altro di questi dispositivi o dei tanti altri oggetto dell’iniquo compenso viene acquistato dalle amministrazioni dello Stato che poi dimenticano di chiedere il rimborso.
Ma, forse, c’è ancora di più. Viene, infatti, da chiedersi se i dirigenti pubblici che, sin qui, hanno dimenticato di chiedere a Siae il rimborso di quanto indebitamente versato, non abbiano prodotto all’erario un grosso buco sul quale, forse, sarebbe opportuno indagasse la Corte di conti.
Per evitare di vedersela con i giudici contabili, tuttavia, le amministrazioni potrebbero correre ai ripari e chiedere indietro quanto sin qui versato, che il termine fissato da Siae sia o meno trascorso, dato che non tocca certo a quest’ultima stabilire se e in che termini un’amministrazione può riavere indietro quanto indebitamente pagato. Paradosso nel paradosso, probabilmente, tra le amministrazioni che non avranno chiesto indietro l’equo compenso ci sarà anche il Ministero dei Beni e delle Attività culturali che certo, domani, davanti alla Corte dei Conti, non potrà sostenere di non conoscere le norme.