Sisifo: il mito, tra gli antichi e Albert Camus

Pubblicato il 19 Marzo 2018 alle 13:55 Autore: Salvatore Mirasole
mito di Sisifo Albert Camus

Sisifo: il mito, tra gli antichi e Albert Camus

Premessa doverosa: i miti e gli autori del passato non sono nostri contemporanei, né tantomeno “attuali”, come spesso si sente dire. Che il loro messaggio non si esaurisca nell’arco vitale dell’auctor e che giunga fino a noi per acquisire lo statuto di classico, qualsiasi cosa questa etichetta possa significare, è tutt’altra storia.

Miti, maschere, figure, poemi cosmogonici, quadretti bucolici: sono tutti espressione di un mondo lontano nel tempo e dal nostro modo di pensare, riflesso di valori che da lungi non ci appartengono più.

Ciò detto vediamo chi fu Sisifo, da Omero a Camus, tentando di comprendere il significato del suo mito, con particolare attenzione alla variante diacronica.

Sisifo: un nome che parla da sé

Sisifo è un nome quasi parlante, Sísyphos in greco che gli antichi collegavano etimologicamente a sophós, saggio. Egli è dunque saggio, forse il più saggio tra gli uomini (viene definito anche kérdistos, che potremmo tradurre con utilissimo/astutissimo, come ci suggerisce qualsiasi dizionario di greco) e, in virtù di ciò, la sua pena la più immensa: perché è di un dannato che stiamo discutendo. Egli non solo ha voluto ottenere la vita eterna per se stesso, ma anche per il genere umano: Prometeo dell’immortalità, ha voluto equiparare gli uomini agli dei macchiandosi pertanto del peccato più grande.

Vale la pena di ricordare, nella loro interezza, tre importanti testimonianze sul mito di Sisifo, tutte risalenti alla fase arcaica della letteratura greca:

 

Omero, Odissea, XI 593-600: E vidi Sisifo, che pene atroci soffriva reggendo con entrambe le mani un masso immenso. Costui, piantando le mani e i piedi, spingeva su un colle la pietra: ma appena stava per varcarne la cresta, ecco la Violenza travolgerlo; e rotolava al piano di nuovo la pietra impudente. Ed egli tenendosi spingeva di nuovo: dalle membra gli colava il sudore, dal suo capo si levava la polvere. (trad. G.Aurelio Privitera)

 

Alceo, papiro di Ossirinco 1233, fr. 1 col. 2:  Bevi con me Melanippo. Una volta che tu abbia varcato dell’Acheronte la vorticosa fiumana, ti illudi forse che potrai ancora contemplare il puro sole. Su cose troppo grandi non porre il desiderio. Sisifo, lui pure, il figlio del re Eolo, che fra tutti gli uomini era il più accorto, si illuse di fuggire la morte, ma dovette pure lui, che era ricco di accorgimenti, di nuovo varcare i flutti, ed il Cronide gli diede per sorte di soffrire una gran pena. (trad. Domenico Romano)

 

Teognide, 699-718: Per molti uomini una è la virtù: aver ricchezze; delle altre cose, nessuna sarebbe utile, nè se tu avessi la saggezza di Radamante o se sapessi più cose di Sisifo figlio di Eolo che convinse con parole ingannevoli Persefone, colei che che dà ai mortali l’oblio rendendoli folli, cosicché per le molte accortezze egli ritornò dall’Ade. Impresa che nessuno aveva neppur meditato [..] l’eroe Sisifo ritornò alla luce del sole grazie alla sua grande avvedutezza. (trad. dell’autore)

L’analisi del mito di Sisifo attraverso questi passaggi

Le prime due hanno una cosa in comune, peraltro caratteristica che riaffiorerà con maggiore evidenza nella letteratura successiva: entrambe fanno risaltare il momento finale, quello della pena esiziale, la conclusione di un processo che non poteva altrimenti culminare nel castigo divino: hybris che procude l’ineluttabile nemesis divina. In Omero, è Ulisse che parla presso la corte di Alcinoo rimembrando i travagli che lo hanno accompagnato fino all’arrivo presso i Feaci. L’mmagine della pena di Sisifo ci viene presentata con estrema vividezza ed efficacia descrittiva, l’esametro greco passa da ritmi più lenti a riprese più veloci (quando la pietra spinge verso Sisifo, ad esempio); metrica e contenuto aderiscono ad uno schema preciso e ad una precisa finalità: l’esaltazione della sorte di Sisifo nell’Ade, la sua perpetua condanna.

Omero, maestro di tutte le cose come lo chiamavano gli antichi, invita la grecità a non sfidare gli dei.

Similmente Alceo, sebbene ci troviamo in quel contesto simposiastico che tanto caro è al poeta eolico, pone la saggezza in evidente subordinazione alla pena: neppure il più accorto degli uomini può ingannare gli dei.

Teognide ci dice qualcosa in più, o meglio: legge una vicenda con un taglio diverso. La sua preoccupazione era quella di far emergere lucidamente l’unicità della titanica impresa di Sisifo, la sconfitta della morte, piuttosto che continuare a sottolineare l’eterna sofferenza del personale inferno di Sisifo. Teognide è un poeta in esilio; la sua città, Megara, dilaniata dalle lotte interne tra la vecchia aristocrazia e gli emergenti ceti nuovi, il rischio di una tirannide alle porte. Può sorprendere dunque l’elogio di Teognide, figlio del suo tempo e non del nostro, nei confronti di un titanico áristos?

La continua rielaborazione del mito di Sisifo

Sisifo continua a vivere nelle (semi)rielaborazioni tragiche e filosofiche d’età classica: passa da Pindaro ad Aristotele e Platone attraverso Eschilo, Euripide e il suo contemporaneo Crizia di cui possediamo un breve frammento di un dramma satiresco, il Sísyphos Satyrikós: Sisifo è uomo saggio, dal forte intelletto. Il mito del figlio di Eolo sopravvive saldamente e giunge fino a Roma, dove Lucrezio ne dà una brillante rilettura (De Rerum Natura, 3, 995-1002): egli è identificato conil petitor, l’uomo politico che chiede al popolo i fasci e le scuri (simbolo del potere nell’urbe), ma come Sisifo che ogni volta è spinto verso il basso dalla pietra immensa, il petitor si ritira sempre sconfitto e triste: aspirare al potere è cosa vana e non viene mai concesso veramente. Gli epicurei, il De Rerum Natura è un’esaltazione in versi di Epicuro e della sua dottrina, si tenevano a debita distanza dalla vita politica, giacché quest’ultima li tratteneva dal conseguimento del fine l’ultimo: l’atarassia, la condizione di serenità priva di qualsiasi genia di turbamento.

Con un ardito balzo di duemila anni, arriviamo al Le mythe de Sisyphus. Essai sur l’absurde (1943) di Albert Camus. Se nel mondo antico la riflessione ruotava intorno ad un dato oggettivo, il mito stesso dell’Eolide Sisifo, puntando il dito contro il peccato e, soprattutto, il castigo divino, in Camus il pensiero si astrae del tutto in una costruzione brillantemente filosofica che trascende la tradizione antica e il suo oggetto.

La simbologia del mito di Sisifo per Camus

Per il pensatore francese, Sisifo è il simbolo della lotta contro gli dei che in Camus sono il puro riflesso dell’assurdo nell’esistenza umana. Nella sua eterna discesa, Sisifo ha piena comprensione di tutto ciò, sa che il suo iterato cammino è il frutto delle sue scelte, in un universo ormai privo di padroni. E divinità. Senza dimensione trascendente, senza destino o fato superiore, l’esistenza è assurda e unica forza che vi si oppone è la sopportazione consapevole. Pertanto (Il mito di Sisifo in Opere. Milano, Bompiani, p. 319):

Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice.

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