La rieducazione del condannato e l’esperienza universitaria nel carcere (prima parte)
La rieducazione del condannato e l’esperienza universitaria in carcere (prima parte)
Storicamente il carcere, secondo la visione dell’intellettuale francese Michel Foucault, non è mai riuscito a realizzare la finalità di reinserimento sociale che si era proposto e che, anzi, sia un dispositivo atto a replicare un illegalismo controllato e “utile”, non pericoloso né politicamente che economicamente. Il periodo di pena da scontare non va visto come una sorta di punizione divina. E’ sicuramente uno strumento di espiazione di un reato, ma non solo. Per evitare recidive e pericolosità sociale dei detenuti è necessario trasformare il tempo di pena in tempo di rieducazione del soggetto, in tempo di qualità.
Allora si potrà riscoprire il fine ultimo della privazione di libertà del detenuto. A ostacolare questo alto ideale è la situazione concreta di sovraffollamento delle carceri, che rende invivibile la vita nelle celle. Ad esso collegata vi è l’emergenza sanitaria– che si registra con particolare complessità per quanto riguarda il trattamento di malattie psichiche. Il lavoro e l’istruzione sono allora i due pilastri da sostenere per favorire una “pena di qualità” e un futuro reinserimento del soggetto nella società.
La funzione della pena: rieducare il condannato
“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.” (Art. 27 comma 3 Cost.)
“E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà.” (Art.13 comma 4 Cost.)
Queste due disposizioni costituzionali rappresentano il fondamento e il contenuto minimo relativo al trattamento del detenuto e alla funzione della pena, nel nostro ordinamento. La pena ha in primo luogo uno scopo di prevenzione generale, cioè dissuadere chi la subisce dal commettere ulteriori reati, e quindi uno scopo di prevenzione speciale nei confronti del reo. La funzione più nobile a cui si richiama la pena è quella di tendere alla rieducazione del condannato.
Il tentativo di riforma svuota carceri
Affinché il periodo di reclusione sia proficuo ai fini della rieducazione è però necessario un ambiente che possa permettere lo sviluppo dell’individuo e il rispetto dei diritti umani. Ciò attualmente in Italia è molto difficile, data la criticità delle condizioni nelle carceri. Siamo già stati condannati nel 2013 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per aver violato l’art.3 della Cedu- divieto di trattamenti inumani e degradanti- a causa del grave sovraffollamento degli istituti penitenziari (sent. 8 gennaio 2013, Torreggiani e a. c. Italia, ric. n.
43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e
37818/10).
Un tentativo in questa direzione è stato apportato dal governo con il cosiddetto decreto svuota carceri (Decreto Legge, testo coordinato 23/12/2013 n° 146, G.U. 21/02/2014). Il decreto nasceva con l’obiettivo di restituire ai detenuti la possibilità di esercitare i propri diritti fondamentali e di affrontare il fenomeno del sovraffollamento, garantendo comunque la sicurezza sociale. Come fine concreto: diminuire il numero di persone detenute in carcere, secondo criteri selettivi. Si è cercato di ridurre i flussi di ingresso (con forme di detenzione alternative al carcere) e accelerare i flussi di uscita (stabilizzando l’istituto della esecuzione della pena presso il domicilio prevista dalla legge n. 199 del 2010 e l’istituto della messa alla prova). Queste disposizioni hanno riguardato i reati minori, come il piccolo spaccio.
Il sovraffollamento delle carceri italiane
Dai dati forniti dalla Polizia Penitenziaria, nel maggio 2017, il totale di detenuti in eccesso è di 10320 (il numero dei “detenuti in eccesso” si riferisce alla somma delle persone detenute in più rispetto alla capienza di ogni singolo carcere. Esempio: se un carcere con capienza 100, ospita 150 detenuti, allora 50 detenuti sono in eccesso rispetto alla capienza). La percentuale del sovraffollamento è allora del 113,57%. Su 194 carceri italiane, 131 risultano affollate. Le carceri con un maggiore livello di sovraffollamento si trovano in Puglia (144,88%), Molise (139,39%) e Lombardia (134,2%). Dall’altro alto, il numero di detenuti presenti è inferiore alla capienza in Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige, Sardegna, Sicilia e Marche.
Problematiche legate al sovraffollamento: sanità e vivibilità
Collegate al dato del sovraffollamento vi sono innumerevoli problematiche, che rendono le carceri luoghi invivibili. Una di esse è la sanità. “Il carcere si conferma contenitore di sofferenze fisiche e psichiche e fabbrica di malattia, su cui l’intento riformatore può intervenire efficacemente solo se agevolato da un più ampio mutamento della gestione della penalità”- dal XIV rapporto sulle condizioni di detenzione. A redigerlo, l’associazione Antigone, “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”. Si tratta un’associazione politico-culturale a cui aderiscono prevalentemente magistrati, operatori penitenziari, studiosi, parlamentari, insegnanti e cittadini che, a diverso titolo, si interessano di giustizia penale.
Spesso a causa del sovraffollamento, non vengono rispettate la condizioni di vivibilità nelle celle. Il Comitato Europeo per la prevenzione della tortura ha stabilito come standard minimo di spazio vitale nelle celle, 6 metri quadrati. Questa misura non è rispettata nel 69,4% degli 86 istituti penitenziari, visitati dai membri di Antigone. Non sempre nelle celle funziona il riscaldamento e molto spesso manca l’acqua calda. Per quanto riguarda le condizioni igieniche: in più della metà degli istituti visitati, le celle non dispongono di docce e in 4 istituti il wc non è separato dal resto della cella.
Emergenza sanità nelle carceri italiane
La sanità penitenziaria nazionale è “ghepardizzata”, con livelli e qualità dell’assistenza sanitaria che variano molto da regione a regione. L’osservatorio di Antigone ha evidenziato inoltre alcune criticità specifiche:
- La carenza di strumentazioni che garantiscano la “continuità terapeutica”. Anche laddove i servizi sanitari funzionano, il carcere continua ad essere una “mondo a parte” rispetto ai servizi sanitari all’esterno.
- E’ raramente prevista la cartella clinica informatizzata. La conseguenza più comune è che, in caso di trasferimento di istituti oppure di scarcerazione, difficilmente quelle informazioni usciranno dall’archivio del penitenziario e “seguiranno” la persona reclusa. Sarebbe buona pratica consegnare copia della cartella clinica alla persona che esce dall’istituto, ma , anche questa, è un eccezione.
- L’assoluta inadeguatezza delle carceri italiane a ospitare persone disabili. Barriere architettoniche, mancanze di celle attrezzate per consentire la mobilità, sono una norma.
Uno degli aspetti più controversi riguarda la salute mentale. I problemi psichiatrici dei detenuti vengono affrontati ricorrendo a massicce dosi di psicofarmaci e terapie farmacologiche. Mentre le ore settimanali di terapia psicologica sono gravemente insufficienti. “Ma la figura dello psichiatra non può e non deve essere la sola ad affrontare la questione della salute mentale. Fondamentale è il ruolo dello psicologo, che, insieme all’area educativa, ha un ruolo fondamentale soprattutto nei confronti di quei detenuti che stanno vivendo momenti di particolare stress legati, ad esempio, a vicissitudini processuali o alle difficoltà di convivenza.”
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Come trascorrono il tempo i detenuti in carcere
Riempire ogni giorno 24 ore all’interno di un carcere, non è semplice. Passare il proprio tempo in luoghi che non rispettano gli standard minimi di vivibilità porta spesso alla manifestazione di problemi di salute fisici e psichici. Ma spesso è la noia, il fatto di avere troppo tempo libero che si può solo passare rimuginando sui propri errori, a provocare stati depressivi o di disagio. Le celle dovrebbero essere aperte 8 ore al giorno, ma questo raramente avviene.
Quali sono le attività che i detenuti possono svolgere collettivamente? Essi vengono coinvolti in attività lavorative, istruttive, formative e sportive. Il lungimirante obiettivo è quello di rendere il tempo in carcere, un tempo di qualità che possa servire a chi sconta la pena di reinserirsi nella società, una volta liberato. E’ una lotta all’emarginazione.
Il lavoro per i detenuti
L’attività lavorativa e la formazione professionale dovrebbero fornire alle persone detenute capacità e competenze spendibili nel mercato del lavoro. I detenuti sono dipendenti dell’Amministrazione penitenziaria oppure di soggetti esterni e dalla A.P. vengono stipendiati, secondo i fondi stanziati. Dai dati del Ministero di Grazia e giustizia si evince che nel 2017 i lavoratori ammontavano al 31,95% del totale di detenuti. Per garantire a tutti la possibilità di lavorare, si organizzano dei turni, spesso molto brevi.
Alcune delle mansioni sono: la pulizia delle sezioni, la distribuzione del vitto, delle mansioni di segreteria, la scrittura di reclami e documenti per altri detenuti, lavori di piccola carpenteria, idraulica o elettrotecnica.
Maggiore sensibilità al fine rieducativo della pena
“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.” (Art 2 Cost.)