Diciamoci la verità: tutti quelli che hanno avuto qualcosa a che fare col mondo dello sport, che si tratti di atleti, dirigenti o tifosi di qualsiasi livello, dall’ultrà in curva ogni domenica a quello “fantozziano” da salotto con birra gelata e frittatona di cipolle, hanno avuto anche a che fare, direttamente o tramite qualcuno che conoscono, con cabale, riti propiziatori, manie, gesti sempre uguali ripetuti prima di ogni incontro e altre amenità. Tutti ne conosciamo qualcuno, direttamente o per sentito dire, sempre che poi il soggetto in questione non siamo proprio noi stessi. Per non parlare dei campi o di certe squadre contro cui “non si vince mai”, delle squadre che non possono trionfare nemmeno nella fantasia più sfrenata, insomma, delle maledizioni sportive.
Ecco, invece oggi ne parliamo, perlomeno di qualche caso abbastanza eclatante.
In ambito calcistico per esempio, partendo dalla vecchia Europa, la più celebre di tutte è sicuramente la “maledizione di Bela Guttmann”, viste anche le recentissime vicissitudini che l’hanno riportata alla ribalta con le ultime sconfitte del Benfica in Europa League. Bela Guttmann era un fantastico allenatore ungherese, un giramondo e un precursore dei moderni comunicatori come Josè Mourinho, uno che faceva della pretattica ai microfoni prima delle partite uno stile di vita, e che poi in campo vinceva. E vinceva alla grande, visto che per due anni consecutivi portò la sua squadra, il Benfica appunto, a vincere quella che allora si chiamava ancora Coppa dei Campioni. Il problema nacque quando il mister si vide rifiutare un premio extra per il secondo titolo vinto, fatto che lo spinse ad andarsene a fine stagione sentenziando che “Da qui a cento anni nessuna squadra portoghese sarà bicampione d’Europa, ed il Benfica senza di me non vincerà mai una Coppa dei Campioni”. Correva l’anno 1962. La maledizione non solo è ancora efficace dopo aver resistito a ben cinque finali, ma pare essersi estesa alle altre competizioni continentali, se è vero, come detto poco prima, che anche nella recente finale di Europa League le aquile lusitane sono tornate a casa -per la terza volta- con le pive nel sacco.
Se ci spostiamo invece verso il sud America, di storie ne potremmo trovare probabilmente in ogni angolo di ogni paese di quella terra così eterogenea, ma allo stesso tempo così simile per l’amore per il pallone che la accomuna. Una in particolare riguarda il Racing Club de Avellaneda, la terza squadra più popolare dell’Argentina dopo Boca e River. Il Racing vince nel 1967 la coppa intercontinentale contro il Celtic, ma pare che durante il match alcuni tifosi della squadra avversaria, l’Independiente, riescano ad intrufolarsi nello stadio dei rivali seppellendo nel campo sette gatti neri morti. Dico “sembra” perché nel corso della storia i resti dei poveri felini non sono mai stati realmente rinvenuti. Se vi state chiedendo per quale motivo li abbiano cercati, me ne viene in mente solo uno: disperazione. Da quel giorno del ’67 infatti alla squadra ne capitarono di tutti i colori, compresa una retrocessione sanguinosa, e di titoli non se ne vide più nemmeno l’ombra fino al 2001. Per questo motivo i dirigenti del club le provarono tutte per togliere la maledizione, fino a prendere per l’appunto la decisione di rivoltare il campo come un calzino alla ricerca dei resti delle povere bestiole. Fallimento su tutta la linea. Si dovrà attendere come detto il 2001 per veder vincere alla squadra nuovamente un titolo nazionale. Titolo peraltro tra i meno festeggiati di sempre visto che in quel periodo il paese sprofondava in una crisi economica che al calcio lasciava ben miseri interessi rispetto a passato.
Una storia meno macabra e sicuramente più curiosa si può trovare se risaliamo il continente fino alla zona degli Stati Uniti, dove anche qui di storie ce ne sono un paio succulente. Ci dobbiamo spostare però sui diamanti del baseball della Major League Baseball (MLB) e passare per lo stadio di Chicago, dove a livello di maledizioni si può trovare probabilmente la più originale in assoluto. Il 6 ottobre 1945 infatti, tale William Sianis (per tutti Bill), ottiene due biglietti per assistere alla quarta partita delle World Series tra Chicago e Detroit che si gioca proprio in Illinois. Sianis, un immigrato greco che è proprietario di un famoso pub della zona, decide di portare all’incontro la sua.. capra! No, non si tratta di un commento cattivo riguardo ad una moglie poco istruita, ma di una vera e propria capretta che Sianis adottò come mascotte del suo locale, dopo averla trovata ferita per essere caduta da un camion e averla salvata. I due inizialmente furono ammessi allo stadio, guadagnandosi anche prima della partita un giro di campo, ma poi le lamentele per gli odori sgradevoli emessi dall’animale spinsero la sicurezza, su ordine dell’allora proprietario Philip Knight Wrigley, ad allontanare entrambi dallo stadio prima che la partita fosse terminata. Come potrete immaginare il greco non la prese benissimo, sentenziando che i Cubs non avrebbero mai più giocato una sola partita di finale su quel campo. Chicago, che aveva vinto il titolo nel 1907 e nel 1908, da allora non ha mai più guadagnato l’accesso nemmeno alle finali nazionali, risultando ad oggi la squadra con il maggior numero di anni consecutivi senza vincere un titolo. Ci si mise anche la sfortuna, quando un tifoso deviò una palla decisiva che stava per essere catturata da uno dei giocatori di Chicago durante una gara sei che, se vinta, avrebbe nuovamente regalato ai Cubs l’accesso alla finale, dove invece approdarono gli avversari che vinsero quella gara sei e anche sette, oltre alla finale per 4-0.
Probabilmente errori dirigenziali, giocatori mediocri e squadre non così ben assortite, potrebbero risultare un elemento decisamente più probante nell’elenco delle possibili cause per questa astinenza, ma nel dubbio voglio che sappiate che a me le capre stanno veramente simpaticissime.
Per trovare la storia più affascinante in assoluto invece, bisogna spostarsi solo di qualche miglio verso la costa atlantica. È un tragitto non particolarmente lungo, soprattutto per le distanze americane, ma per distrarvi durante il viaggio potreste dare un’occhiata a questo siparietto.
M: “Quando ha saputo che lei era la donna giusta?”
R: “Il 21 ottobre del 1975”
M: “Oh Cristo Santo…sa perfino la data”
R: “Oh si! Era la sesta partita del World Series, la decisiva per i Red Sox. Io e i miei amici avevamo dormito tutta la notte sul marciapiede per prendere i biglietti. Il giorno della partita eravamo seduti in un bar in attesa dell’inizio ed ecco che entra quella ragazza. Partita memorabile! Alla fine dell’ottavo inning, Carbo pareggiò: 6 a 6. Arrivano a 12 inning. Alla fine del 12° toccò a Carlton Fisk, il “vecchio bassotto”. Va alla battuta. Sai assume quella strana posizione e poi…BANG! Un colpo che è una cannonata. 35.000 tifosi invadono il campo, sai. E lui corre come un invasato gridando: “Levatevi di mezzo, levatevi di mezzo!”.
M: “Lei invase il campo?”
R: “No, io non ho invaso il campo, io non c’ero. No, io ero al bar a bere con la mia futura moglie.
Il dialogo qui citato è tratto da Will Hunting – Genio ribelle, pellicola del 1997 con un grandioso Matt Damon che indossa magistralmente i panni di Will, ragazzo difficile ma di enorme intelligenza, e Robin Williams, che nei panni dell’unico psicologo che riesce a creare un legame con lui è addirittura aristotelico. Nel senso che la spiega, come si dice dalle mie parti, a tutti. Non a caso vincerà a mani basse il premio oscar come attore non protagonista. Il film è ambientato a Boston, Massachusetts, dove nel frattempo siamo giunti (col pensiero si viaggia decisamente in fretta), e il dialogo riguarda una memorabile partita della locale squadra di baseball, i Boston Red Sox. Boston è una delle squadre che fondarono la MLB nel 1903, anche se cambiarono il loro nome in quello attuale solo qualche anno dopo. La lega nacque dalla fusione di American e National League. Entrambe attualmente contano 15 team ciascuna, entrambi divisi in tre Division da cinque. Le due leghe giocano con regole leggermente diverse tra loro, e come al campetto sotto casa, quando si affrontano due squadre appartenenti a leghe diverse, si applicano quelle della squadra che ospita. Ci sono 162 partite a squadra per completare il campionato da aprile a settembre, poi un tempo chi arrivava primo nelle due leghe si sfidava per il titolo nazionale, mentre da un po’ di anni a questa parte sono state aggiunte delle serie di play off per stabilire chi accede alle World Series. Boston vinse il titolo per cinque volte fino al 1918, complice anche l’arrivo nel 1914 di uno straordinario talento che rispondeva al nome di George Herman Ruth jr., meglio conosciuto come Babe, semplicemente uno dei più forti giocatori di baseball di tutti i tempi. Le cose però cambiarono drasticamente il 9 gennaio del 1920, quando il proprietario della squadra cedette Ruth agli arcirivali dei New York Yankees per… finanziare alcuni spettacoli (fallimentari) di Broadway. I morigerati tifosi di Boston ci andarono leggeri, definendolo “il crimine del secolo”, e non si sbagliarono di molto. I rivali newyorkesi, mai saliti prima alla ribalta, iniziarono a vincere titoli su titoli, sia nell’American League che nelle World Series, avviandosi a diventare la più vincente delle franchigie professionistiche della MLB. Non fosse bastato questo a demoralizzare i tifosi rivali, i Sox entrarono in un tunnel terribile che li vide ultimi per nove volte penultimi per due nei successivi 14 anni. Solo nel 1946 tornarono alle finali nazionali, perdendo in sette gare contro gli sfavoriti Cardinals di St. Louis. Poi ancora delusioni sul filo di lana impedirono più volte alla squadra di arrivare in finale fino al 1967, ma di nuovo i Cardinals ebbero la meglio, sempre alla settima e decisiva partita. Si arriva quindi alla famosa partita del 1975, quella in cui tutto lo stato attendeva, dopo una grande stagione, il riscatto dopo anni di sofferenze. Cincinnati conduceva 3-2 prima della celebre scena descritta meravigliosamente nel dialogo che avete letto poco sopra. Il 3-3 però non bastò perché ancora una volta Boston perse a gara sette.
Un altro balzo nel tempo, sorvolando 11 stagioni di sfortune e sconfitte brucianti, ci porta al 1986, quando Boston sfida i Mets, la seconda squadra della grande mela, per il titolo. Avanti 3-2 e con gara 6 in pugno, ad un passo dalla vittoria Boston consentì una rimonta insperata ai rivali grazie ad un clamoroso errore del prima base Bill Buckner. Gara 7 a New York vide, per la quarta volta consecutiva, la squadra perdere il titolo nella sfida finale. Nel 1990 prese forma e sostanza “la maledizione del bambino” grazie al libro pubblicato da un giornalista del Boston Globe, Dan Shaughnessy con il titolo appunto di “The Curse of the Bambino”. Nessuno aveva posto il dito sulla vicenda prima di allora, ma da quel momento la cosa prese piede in maniera quasi maniacale, e si sa come certe cose entrino facilmente nella psiche umana. Quando nel 2003 Boston perdette l’accesso alla finale sempre in sette gare contro gli Yankees, questa sembrava solo la degna continuazione della maledizione bostoniana, e così quando l’anno successivo gli stessi Yankees dominavano per 3 a 0, a nessuno poteva venire in mente di sperare in una rimonta impossibile. Nello sport professionistico americano infatti nessuna squadra era mai riuscita a rimontare da 0-3. A nessuno tranne che ai fan di Boston, che nonostante 86 anni di astinenza sfoggiavano i cartelli con scritto “WE BELIEVE” (noi ci crediamo) anche in gara 4. Misteri della fede, dello sport o di quello che volete voi, ma l’entusiasmo del pubblico portò a due vittorie in casa, al pareggio a New York in gara 6 e al trionfo in gara 7. Sulle ali di questa impresa Boston non si fermò più, assaporando il gusto della vendetta proprio sui Cardinals che per due volte li avevano beffati in passato. Oggi Boston, tolta dalla spalla la scimmia della paura di vincere, ha conquistato altri due titoli, nel 2005 e nel 2013, risultando attualmente la squadra detentrice del trofeo.
Hanno dunque reale valore queste cosiddette maledizioni? Nessuno può dirlo con certezza. E forse che abbiano fondamento reale o siano frutto di aspetti puramente psicologici poco importa. Perché quel che è certo è che aggiungono interesse, curiosità e attenzione che arricchiscono decisamente gli eventi sportivi che ne sono influenzati.
E che se facessero un seguito di Will Hunting, Will e Sean avrebbero parecchio di cui parlare.
Marco Minozzi