Quelle 629 vite migranti sulla Aquarius e i limiti della politica – DAL BLOG
Della vicenda della nave Aquarius, rimbalzata tra i porti maltesi e italiani e finalmente diretta verso la Spagna, sentiremo parlare ancora per lungo tempo. Il rifiuto all’attracco della nave imposto dal ministro dell’interno Salvini e le conseguenti dichiarazioni dei leader europei rischiano di aprire uno scontro lacerante per i già fragili rapporti interni all’Unione Europea.
Perché questa vicenda ha tanto colpito l’opinione pubblica e i media? Un primo elemento da tenere in considerazione è che si è trattato di un banco di prova per il neonato governo. Il tema delle migrazioni era infatti una delle bandiere della campagna elettorale. Una vicenda esemplare, da portare come esempio di una presa di posizione radicale del governo italiano nei confronti dei migranti. Un messaggio forte e diretto ai partner europei tanto quanto agli elettori italiani. Di conseguenza – soprattutto sui social media – la questione è stata presa a pretesto per rinforzare la tanto forte quanto sterile polarizzazione tra “favorevoli” e “contrari” all’accoglienza dei migranti. Invece che un dibattito serio su una questione urgente, si è generato uno scontro tra tifoserie, giocato sul terreno delle vite che nel frattempo attendono in mare di poter raggiungere un porto.
Un dilemma morale tra vite e politica
Il dilemma su cui vorrei soffermarmi, però, non è relativo agli echi mediatici della vicenda. Potrebbe essere invece sintetizzato in questo modo: è legittimo fare di vite umane in condizioni di rischio il terreno di uno scontro politico? Come comportarsi di fronte alla richiesta di aiuto da parte di vite umane, quando quelle vite sono erette a rappresentanti di questioni diplomatiche che li sovrastano? È giusto alzare le mani come per dire “li salvi qualcun altro”, allo scopo di far esporre politicamente qualcuno?
Mi si obbietterà che in ogni decisione politica – anche in situazioni non emergenziali – ne va della vita di qualcuno. La politica è prendersi cura della vita degli altri, e non posso non essere d’accordo. Tuttavia la questione dell’Aquarius ha posto il problema in termini urgenti. La politica non si è fermata di fronte a 629 vite umane, rimettendo la sopravvivenza dei migranti nelle mani di fragili rapporti diplomatici. Non è questo un caso in cui la politica dovrebbe arretrare, quantomeno fino alla risoluzione della situazione di emergenza? O non è stato forse proprio il mettere in gioco la vita di quei migranti, che hanno volti e storie, a sbloccare una discussione sul tema dell’accoglienza che altrimenti sarebbe rimasto sopito?
Modi di rischiare la vita
Il meccanismo messo in atto ricorda da vicino quello degli scioperi della fame. Perché soprattutto nel secolo passato si è imposto lo sciopero della fame come strumento di lotta politica? Perché di fronte al rischio per la vita fisica di una persona, la politica non può ignorare il problema che quella vita in pericolo rappresenta. L’efficacia è derivata proprio dal mettere in campo la vita, e soprattutto la morte, di cui un’istituzione non può farsi responsabile. Uomini come Ghandi o Danilo Dolci hanno fatto della propria vita personale la posta in gioco nel braccio di ferro con le istituzioni. Davanti alla responsabilità per la loro sopravvivenza hanno dovuto prestare in qualche modo ascolto.
Certo, l’analogia ha dei limiti, ma sottolinea il medesimo problema, quello della responsabilità politica di fronte alla vita degli individui. Sulla Aquarius 629 vite sono state messe in gioco di fronte alla politica europea in due sensi. Sono state rischiate dai migranti stessi – per dire all’Europa che guerre e strascichi coloniali sono anche un suo problema – e sono state rischiate dal governo italiano, che le ha usate per far emergere una controversia internazionale.
La vita personale come limite della politica
Ciò che accomuna queste storie è il fare della vita personale, attivamente o passivamente, il terreno di uno scontro politico, rimettendone a un’istituzione la responsabilità.
Le istituzioni italiane, in questo caso, non hanno esitato a rischiare quelle vite. Politicamente, si è scelto di anteporre gli equilibri internazionali a delle vite reali, presenti in carne ed ossa. La legittimità del portare al tavolo della discussione europea i difficili equilibri tra accoglienza e sostenibilità non è qui messo in dubbio. È invece da questionare una politica che per i propri scopi – legittimi o meno che siano – non esita a rischiare vite in condizione di estrema fragilità. Una politica dell’accoglienza che tenga in equilibrio sensibilità diverse – ancora tutta da inventare – non può non partire dal riconoscere che di fronte al volto dell’altro in pericolo di vita ogni discussione ha il dovere di fermarsi e di prestare soccorso. Ci sono luoghi opportuni per le negoziazioni, che non possono coincidere con i corpi delle persone.
Federico Rovea per il blog Nipoti di Maritain